Ricordo di mio nonno Pantaleo De Giorgi (storia vera)

santamariaOgni tanto il giovane maestro Pantaleo De Giorgi infilava l’indice in quel maledetto colletto incravattato. E faceva una smorfia per via della lingua impastata: brama d’acqua fresca nel piccolo paese del Salento assetato.

Il concerto bandistico era fissato per le nove, mancavano quattro ore, i musicanti si stavano riposando nei locali della canonica. Lui era uscito, ché fermo come un baccalà scacciando mosche, non ci sapeva stare.
Osservò la facciata baroccheggiante della Chiesa locale: una malriuscita imitazione di Santa Croce. “Una cosa è Lecce, un’altra questo posto sperduto”, gli venne da osservare. E più avanti: “Se non trovo chi mi dà una sorsata d’acqua, muoio… quantè vero Iddio”.
I contadini erano ancora in campagna, le porte delle case erano sprangate. Di pozzi, nemmeno la parvenza.
Giunse in uno slargo, in mezzo al quale si ergeva un palazzotto padronale con un vecchio portone di quercia e la maniglia del campanello accanto.
Si avvicinò e suonò, deciso. Una, due volte. “Ci sarà pure una serva, qua dentro.” E a mezza voce, nell’attesa: “Uuuna furtiva lacrimaaa…”
Il portone si aprì pianino: uno spiraglio.
– Chi è?
Il maestro sbirciò, si vide scrutato da certi occhietti mobili e celestini su un giovane viso fasciato da stoffe bianche e incappucciato di nero.
-Buongiorno, sorella. Sono il maestro della banda musicale… sapete, il concerto di stasera per la festa dell’Assunta.
Che volete?
– Perdonate, non sapevo che questo fosse un convento, non mi sarei mai permesso.
E allora? – La suorina dava a vedere d’essere proprio seccata, ma aveva aperta completamente la mezza porta.
– Se è troppo disturbo vado da un’altra parte. – E accennò ad allontanarsi.
Eh, come siete permaloso!… Ordunque, che vi serve?
– Una caraffa d’acqua, per favore.
La religiosa si guardò attorno e fece cenno di entrare:
Dell’acqua non si nega a nessuno.
– Eh, già, lo dice pure nostro Signore, di dar da bere…
Di dove siete?
– Di Vernole.
Io di Bitonto.
– Ci sono stato una volta con la banda per la festa dei Santi Medici. Ci sta un Duomo che assomiglia alla chiesa di San Nicola di Bari. Bella cittadina.
– Ah, sì? A me non è mai piaciuto, né il Duomo, né il paese. Contadini ignoranti come bestie.
La suorina, in un primo momento rustica e diffidente, adesso s’era ammorbidita e addirittura si lasciava andare a certe confidenze. L’altro le ricordò facendo schioccare la lingua il motivo della visita e lei disse:
– Ah, già. – E si allontanò.
suoraIl maestro rimase in piedi a osservare le pareti dell’androne. Volta a cupola, antichi muri in tufo, una Madonna in una nicchia, lume acceso, dei fiori. “Che razza di tipo”, pensò nel frattempo. “Più che una suora pare una che… che… mah!”
Giunse, con una brocca gocciolante, l’oggetto dei propri pensieri.
– Ecco, bevete. – E mentre lui mandava giù con avidità, lei l’osservava respirando affannosamente e mordendosi a tratti il labbro inferiore. E quando l’uomo si fu dissetato, gli tolse il recipiente; e nel compiere quel gesto gli sfiorò una mano con la sua. Al maestro sembrò una carezza; poi pensò “non l’avrà fatto apposta” e fece l’atto di andarsene.
Non vi serve altro?
– No.Tante grazie, sorella.
Misericordia che fretta! – E gli sbarrò la strada.
De Giorgi, che con la coda dell’occhio niente s’era perso di certi strani atteggiamenti della suorina, si ricordò di quel marittimo brindisino conosciuto da militare che aveva viaggiato per tutti i mari del mondo e che si vantava delle proprie conquiste. Ma, soprattutto, di uno strano primato: due suore. “Sono difficili all’inizio”, amava dire, “però, sangue del diavolo, quando si lasciano andare…”
Ma lui, l’onesto maestro De Giorgi, anche se banchi di Chiesa non ne aveva mai lucidati, il rispetto per le cose della fede l’aveva sempre avuto. E poi, non era mai andato in cerca di guai.
– Devo proprio scappare, mi aspettano.
Chi vi aspetta?
– Quelli del Comune… i miei musicanti…
Avete paura?
– No, e di che? Ho fretta.
Avete paura, invece.
– Sì, ho anche paura.
Fate male, perché sono sola, le mie consorelle sono fuori e non tornano prima di sera.
– Non mi importa se siete sola o in compagnia. E lasciatemi andare.
Sentite, perché non fuggiamo insieme? Ho una zia a Otranto che ci terrebbe a casa sua.
– Ma quale zia e zia! E che Otranto! Siete pazza… e non tiratemi per la giacca!
Siete un bell’uomo. – Così dicendo, gli si strinse contro ansimando senza ritegno.
Il maestro De Giorgi tornò con la mente al compagno d’armi, restando come sovrappensiero per un attimo. La suorina non aspettava altro e gli mise una mano sopra un certo posto.
L’altro si divincolò:
– Ma insomma! Basta!… Lo sapete che sono anche sposato? La suora si ricompose e rimase impalata davanti a lui. Ma a testa alta, senza dare a vedere di essere a disagio, anzi in atteggiamento di sfida.
De Giorgi si aggiustò il colletto:
– Non sono fatti miei, ma… si può sapere perché vi siete fatta suora, se poi…
Avete detto bene: non sono fatti vostri.
– Come volete, teneteveli ben cari, allora.
La donna rimase un po’ in silenzio, poi disse:
Ci sono stata costretta da quella carogna di mio padre.
– Com’è che lo avete chiamato?
Carogna… carogna!: avete sentito bene.
– Non si parla in quel modo del proprio genitore. Dio dice di onorare il padre e la madre.
E finitela con questo Dio! Non ci credo nemmeno. E se mi dicessero che mio padre è crepato mi ubriacherei per la felicità.
– Siete proprio pazza. E c’è da uscire pazzi a sentirvi parlare.
E allora fatene a meno.
– Di che?
Di parlare. Buttatemi su quella tavola e prendetemi.
Il giovane, colto dal panico, raggiunse la porta con in salto e se la filò. E attraversando lo slargo si pizzicò un braccio per vedere se era tutto vero quello che gli era capitato.

Molti anni passarono da quel giorno e il maestro De Giorgi non se la poté proprio scordare, la scellerata suora, al punto che, ormai vecchio e pur discretamente rimbambito:
– Mmmmm… dove va quel piccino? – chiedeva ogni volta che scorgeva il nipote cinquenne partire con cestello e grembiule.
– All’asilo.
– Mmmmm… dalle monache?
– Sì… dalle monache – sospirava rassegnata la madre del bambino.
Allora il nonno Pantaleo picchiava rabbioso col bastone sul pavimento bofonchiando irripetibili tiritere all’indirizzo di chi sapeva lui.

  1. Ho letto proprio adesso il tuo racconto. Bello, bello davvero e divertente. Se mi permetti, io l’avrei intitolato (visto l’argomento) : “La monaca di Bitonto” Scherzo. Un saluto.

    1. Caro Nino,
      tra le tante voci che si sono levate, altre ancora ce ne saranno, ne sono certo, per ricordare la figura del tuo amato nonno musicista, l’episodio da te oggi proposto ci conferma la convinzione di trovarci di fronte ad un personaggio di alta statura morale che ha fatto della famiglia e della musica la sua ragione di vita!
      Ti conforti e ti accompagni questo bel ricordo!
      Qualche anno fa, mi è capitato di avere tra le mani un giornaletto su cui ho avuto modo di leggere alcune tue memorie di fatti e di personaggi della Francavilla che fu, non ritieni sia opportuno riproporli al grande pubblico della rete telematica che “FrancavillaInforma” ci offre?
      Un abbraccio.
      Giovanni Fortunato

      1. Caro Giovanni, fa sempre piacere ricevere notizie da un amico d’infanzia. Per prima cosa ti ringrazio delle parole su mio nonno Pantaleo che sicuramente anche tu ben ricorderai. Per quanto riguarda i miei scritti fui io stesso a darteli in lettura un giorno di parecchi anni fa… ed effettivamente non ho nulla in contrario che qualcuno di essi venga riproposto su “Francavilla informa”. Facciamo così: andrò a rivedere quelli che mi sembrano più interessanti e te li invierò (uno per volta con ragionevoli intervalli di tempo) per la pubblicazione. Vuoi che li mandi a te o all’amico Di Giacomo? In attesa della tua risposta ti abbraccio caramente. Giovanni Gazzaneo.

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