don Camillo Perrone "Parroco emerito di S. Severino L."
Circa 2,5 miliardi di persone al mondo sono coinvolte nel settore della piccola agricoltura: un esercito di uomini e donne che tuttavia non riceve il giusto compenso per un lavoro che è tanto prezioso poiché da esso arriva la produzione della maggior parte del cibo del pianeta.
Secondo i dati delle Nazioni Unite, infatti i piccoli agricoltori dei Paesi non industrializzati producono fino all’80% di ciò che finisce nei piatti dei cinque continenti. Il paradosso, allora, è che oltre 800 milioni di persone che soffrono la fame, molte lavorano nel settore agricolo. Si spiega così perché il quadro attuale si presti ad essere criticato: nel sostenere gli interessi del capitalismo e la privatizzazione delle terre, le multinazionali mettono in pericolo il destino della gente comune, dei contadini e delle comunità indigene, la cui vita è legata a doppio nodo con quella della natura.
La Chiesa stessa si è pronunciata con evangelica franchezza, nel merito di situazioni scandalose circa la proprietà e l’uso della terra. In particolare il modello di sviluppo delle società industrializzate è capace di produrre enormi quantità di ricchezza, ma evidenzia gravi insufficienze quando si tratta di ridistribuire equamente i frutti e favorire la crescita delle aree arretrate. Una contraddizione a cui non sfuggono nemmeno le economie sviluppate, ma è nelle economie in via di sviluppo che la gravità di questa situazione raggiunge dimensioni drammatiche. Lo si può leggere nel persistere del fenomeno dell’appropriazione indebita e della concentrazione della terra, cioè del bene che, dato il carattere prevalente agricolo dell’economia dei Paesi in via di sviluppo, costituisce, unitamente al lavoro, il fondamentale fattore di produzione e la principale fonte della ricchezza nazionale. Qui, dunque, una delle cause più importanti della fame e della miseria oltre che la negazione concreta del principio, derivante dalla comune origine e fratellanza, attualmente allettati dall’idea che per un miglioramento del benessere economico generale fosse necessaria una rapida industrializzazione, molti Paesi in via di sviluppo si sono affrettati a realizzare, con scarsi lungimiranza e senno, la modernizzazione dell’economia nazionale, anche in spregio all’agricoltura. Da lì l’assunzione di tutta una serie di iniziative rivelatesi, oggi si può dirlo, disastrose per milioni di lavoratori agricoli: dall’adozione di politiche protettive delle produzioni industriali interne, a politiche di tassazione delle esportazioni agricole, fino a politiche di sostegno del potere d’acquisto delle popolazioni urbane basate sul controllo dei prezzi dei prodotti alimentari. La caduta dei redditi agricoli che ne è derivata ha gravemente colpito i piccoli produttori al punto che molti di essi hanno abbandonato la coltivazione dei campi incentivando, di fatto, il processo di concentrazione della proprietà della terra nelle mani delle multinazionali.
Non integrati con il mercato, i piccoli agricoltori hanno inoltre scarso accesso al credito e, per questo, sono limitati nella possibilità di acquistare i nuovi mezzi produttivi offerti dalla tecnica. Di più, nelle piccole proprietà, la coltivazione dei prodotti per l’esportazione avviene spesso a discapito di ciò che viene prodotto per l’autoconsumo: la famiglia si trova così esposta ad una vita precaria. Come se non bastasse, la stagione potrebbe andar male e le condizioni di mercato essere sfavorevoli: i familiari del piccolo coltivatore possono allora ritrovarsi ad accumulare debiti per far fronte alla miseria incombente con il risultato finale di perdere perfino la proprietà della terra.
Secondo la FAO, se la comunità internazionale s’impegnasse a sostenere il comparto dei piccoli agricoltori, molta povertà potrebbe essere addirittura sradicata. L’appello è rivolto ai governi poiché è l’investimento pubblico che deve supportare la figura del piccolo conduttore rurale, messo spesso dinanzi a difficili condizioni socio-ambientali. Tanto più che, al contrario, l’investimento privato può, sì, aumentare la produzione, i proventi ottenibili dall’export, favorire l’occupazione e il trasferimento di competenze tecnologiche; ma il rischio della logica produttivista è di calpestare i diritti dei contadini locali e generare impatti ambientali negativi.
Recentemente oltre 4mila agricoltori, moltissimi dalla Basilicata, hanno partecipato alla manifestazione di Bari in difesa dei prodotti della terra Made in Italy. In piazza c’era anche il ministro per le politiche agricole, Martina. Produttori lucani in allarme, dopo la proposta dell’Europa di abolire la data di scadenza dell’olio.
Ci piace riferire poi che è stato approvato il Piano olivicolo nazionale utile alla riorganizzazione e alla promozione del settore. I 32 milioni di euro di investimento serviranno alla riorganizzazione del settore e ad aumentare la produzione nazionale per rispondere alla crescente domanda mondiale di olio Made in Italy.
In linea generale e a conclusione, diciamo che le situazioni accennate devono entrare nel quadro dei programmi delle amministrazioni civiche, delle forze politiche e sociali che, garantendo spazio alla libera iniziativa e valorizzando i corpi intermedi, coinvolgono la responsabilità dell’intero Paese sulle nuove necessità, particolarmente per quanto riguarda il settore agricolo.