Verso la Pasqua

Foto tratta dal libro: “Com’era bello… e com’è il mio paese” di A. Capuano

In questo particolare periodo cronologico dell’anno si susseguono ricorrenze di carattere religioso che sono fondamento e guida dei principi etici e morali della nostra cultura. Con la domenica delle Palme, appena trascorsa, si è aperta una settimana particolarmente intensa. Infatti a supporto delle varie liturgie che si perpetuano e si propongono ogni anno, si affiancano tradizioni e usanze che creano fermento e aspettative. Questo succede un po’ ovunque, ogni regione o comunità conserva le tradizioni del passato e le ripropone. Quando avvengono queste cose, un velo di nostalgia, mi avvolge e non riesco a farlo scivolare in silenzio. Allora comincio a raccontare in famiglia, a muovermi in cerca di appigli che mi conducono verso le mie origini e quindi a ricordare. Così, mentre mi vedo affrettarmi verso la chiesa vicino casa mia per partecipare alle funzioni liturgiche della settimana santa, rivedo anche la confusione che regnava a casa in cucina per la preparazione delle squisitezze da consumare in quei giorni che prevedevano il digiuno e la penitenza, la preghiera, la festa.

Ecco la farina setacciata, le uova, le bietoline sotto sale, l’uvetta, la ricotta; sento il profumo di arancia, limone, vanillina e liquore strega. Vedo mani esperte che impastano e trasformano gli ingredienti per creare e portare in tavola prodotti semplici, genuini da condividere rigorosamente in giorni stabiliti. Protagonista incontestata, a casa mia era la mia cara zia Filomena, aiutata da mia madre, tutte e due particolarmente apprensive e concentrate.  Ecco allora i “cavuzunielli” farciti con le bietoline, un po’ di olio, il “cancaricchio”, qualche filetto di acciuga o l’uvetta. Questo piatto sottolineava la giornata di penitenza e di digiuno: il venerdì santo. Il sabato invece si mangiava “a sfugliuleta”, una pizza condita con i “frittuli di nzugna” “zafarano pisato” più volte schiacciata. Per carità piatto frugale, ma tosto.

Alla domenica di Pasqua compariva il vero protagonista: “U PICCILLET”. Innanzi tutto si mangiava quello senza uova e zucchero, in memoria del pane azzimo, poi si affettava la ciambellona con la fogliolina di ulivo e l’uovo come ornamenti. Questo pane veniva venerato, gli era attribuito un significato quasi religioso, di devozione. Per la preparazione vivevano una trepidazione particolare, aspettando la lievitazione anche due giorni; il momento di infornare le ciambelle nel forno a legna di casa, era importante: massima attenzione per evitare di deformare il bellissimo composto. Infine le ciambelle si sfornavano belle tonde, dorate e il massimo era se uscivano “scarcellate”, era buon auspicio. Ah! Che soddisfazione! Intanto nelle strade vicine si diffondeva un effluvio di aromi e di profumi. Alle bambine veniva riservato un omaggio: con la pasta del piccillato, si creava una bambolina che aveva un uovo al posto del viso, pochissime le decorazioni: “a pupa co l’ove”. Una volta però ho preteso che la mia pupa avesse le treccine per fare dispetto ai boccoli che mi facevano portare e che io odiavo. Però come non ricordare la fornaia del paese, forse la prima artigiana quasi imprenditrice diremmo noi oggi? La mia nonna Caterina Gazzaneo che, insieme alle figlie Teresa e Antonietta, produceva in casa e vendeva pane, biscotti, piccillati, prodotti da forno… Poi la figlia primogenita, mia zia Antonietta Febbraio, trasformò questa attività prettamente casalinga, in attività commerciale, conservandone le peculiari caratteristiche dei prodotti. Collaboratori validi furono prima i figli Rita e Nicola Di Giacomo. Ricordo l’entusiasmo quando la zia fondò un forno moderno, di tipo industriale, il TIBILETTI, se ricordo bene.- “ Oh guagliò’ iè nu fuorn come ndà cittè!” Tutti tifavamo ed eravamo orgogliosi di un’impresa grandissima per l’epoca. Che successo! Soprattutto che profumo in via Palestro, non si sfornava solo pane. Di questi tempi, per tutti gli anni sessanta e settanta credo, le signore  preparavano a casa i “piccilleti” e poi andavano a cuocerli nel forno dove il marito di Rita, Luigi Capuano, sorvegliava la cottura essendo diventato anch’egli collaboratore in azienda, come zio Giuseppe Di Giacomo. La tradizione non è stata interrotta perché tre giovani, i figli di Nicola, hanno continuato sulle orme dei padri, proponendo gli antichi sapori e aggiungendone di nuovi come la deliziosa pastiera, unicità del nostro sud. Con affetto e un pizzico di orgoglio mi piace menzionarli: Antonietta, Rosa, Giuseppe, coadiuvati anche dalla loro mamma Melina De Salvo e dal marito di Antonietta, Antonio Arleo che si occupa principalmente della distribuzione. Questi giovani sono la quarta generazione della forneria francavillese. E’ certamente motivo di orgoglio per i parenti e mi permetto di dire, anche per il paese che può vantare un’azienda i cui titolari sono i pronipoti di una vedova della prima guerra mondiale che pose, inconsapevolmente, la prima pietra di un’azienda. Questi giovani nel tempo, con impegno e tenacia, continuano in un’attività importante, laboriosa e anche dura, ma certamente esemplare perché custodiscono così un patrimonio affettivo e culturale oltre che testimoniare alle future generazioni il rispetto per le fatiche dei padri, continuando il cammino sulle loro orme.

Flora Febbraio

Mi sono dilungata nei ricordi e nelle riflessioni, mi scuserete. Penso di non aver divagato dal tema iniziale, anzi a parer mio questi ricordi sono anche l’espressione dell’amore dei figli verso il padre, comportamento che trova le sue radici in quelle tradizioni che in questo tempo ci accingiamo a vivere.

   Con sincero affetto BUONA VITA, BUONA PASQUA A TUTTI .

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