E’ un libro ponderoso quello che Lucy Worsley, 45enne autrice britannica, ci porta all’attenzione e nella intimità di una prodigiosa scrittrice: Jane Austen. Stanze di vita quotidiana così ben rappresentate da non cedere mai alla insulsaggine.
Certo, occorre anche una buona dose di condiscendenza emotiva per appropriarsi delle pagine e di quegli spazi e luoghi apparentemente lontani nel tempo. Scriveva infatti Henry James che “gli scrittori sono chiamati a presentare, attraverso le loro opere, la propria visione del mondo”. E aderendo a tale concetto la Worsley ci racconta con minuziosa capacità interpretativa quelle abitazioni modeste e affollate, canoniche e campagne di abeti e castagni, in “giardini vecchio stile nei quali convivono verdure e fiori”.
Jane Austen, con la sua narrativa neoclassica, mostra talento fin da giovanissima età: ci descrive sogni e necessità, case e ville confortevoli, al contrario delle sue, in quel peregrinare che la conduce dalla canonica della natia Steventon (nell’Hampshire, Sud dell’Inghilterra) fino a Winchester dove si spegnerà a soli 42 anni. Era nata nel 1775, figlia del pastore anglicano George e di Cassandra Leigh. Era la penultima di otto figli, sei maschi e due femmine (James, George, Edward, Henry Thomas, Francis William Frank, Charles John, Jane e Cassandra Elizabeth), ma il rapporto particolare è con la sorella Cassandra: entrambe non si sposeranno mai. Con lei ha intrattenuto una fitta corrispondenza andata per la maggior parte distrutta. Jane trascorre il primo anno della sua vita insieme a una balia, come era in uso all’epoca. Cresce in un ambiente vivace e culturalmente stimolante; il padre si occuperà della sua educazione insegnandole il francese e le basi della lingua italiana, e contribuirà alla sua crescita letteraria grazie ad una collezione di libri che contava centinaia di volumi. Nel 1783, secondo le consuetudini familiari, Jane e Cassandra si trasferirono ad Oxford e in seguito a Southampton per approfondire la loro istruzione insieme a Mrs. Ann Cawley. Dal 1785 al 1786 le due sorelle frequentano la Abbey School di Reading per tornare a casa nel dicembre di quell’anno.
Eppure, in quella canonica dagli spazi angusti Jane scriverà pagine indissolubili che fanno parte della letteratura mondiale, e spesso tradotte in sceneggiature per film autorevoli: Pride & Prejudice (Orgoglio e pregiudizio) Northanger Abbey (L’abbazia di Northanger) e Sense & Sensibility (Ragione e sentimento); quella canonica verrà abbattuta nel 1824, ma il luogo rimane segnato da un vecchio tiglio che si ritiene sia stato piantato dal fratello maggiore, James. E’ lì che Jane si appropria di una visione del mondo che farà sua in ambienti e personaggi, in epoche (come quella georgiana, 1714-1830) nelle quali alle ragazze non si permetteva di studiare greco e latino. Eppure leggerà molto (“chi non prova godimento nella lettura dei romanzi deve essere intollerabilmente stupido” scrive ne L’abbazia di Northanger) ed entrerà nel novero di poeti come William Cower (1731-1800) studioso di Orazio e che in divenire ispirerà il cinema muto. E di Hanna More (1745-1833) fra le prime donne per la emancipazione e contro la schiavitù, come lo erano Coleridge (1882-1834) e Wordsword (1770-1850). Un pullulare di idee e poetiche che Jane scruta dal buco della sua campagna e vi si annida mediante i suoi sogni: lei che – ci fa sapere la Worsley – si schiera nei romanzi dalla parte dei maschiacci anziché della brava ragazza, della verità e non del decoro, del nuovo invece che del vecchio. Un romanticismo che guarda con gli occhi della primavera quando canta:
“Amo vedere le rondini Alla mia finestra ogni anno. / Vengono ad annunciarmi l’ arrivo della dolce primavera! / Lo stesso nido, mi dicono, assisterà allo stesso amore. / Solo agli amanti fedeli / Annunciano giorni felici”.
Amerà di amori traditi dalle contingenze, e dal chiuso come accadrà a poetesse di altre epoche: da Emily Dickinson (americana, 1830-1886); alla messicana Suor Juana Ines de la Cruz (1648-1695), alla lucana Isabella Morra (1520-1545). Un filo rosso che lega romanticismo e acerbo confino delle fantasie femminili. Eppure in Jane Austen vige una forza corpulenta e vibrante, che il Cinema (dicevamo) ha saputo cogliere con opere magnifiche e più volte replicate. Ragione e sentimento (Sense and Sensibility, 1811) portato sullo schermo dal geniale Ang Lee nel 1995 (con le eccellenti Emma Thompson e Kate Winslet). Orgoglio e pregiudizio (Pride and Prejudice, 1813) sullo schermo prima nel 1940 diretto da Robert Z. Leonard e quindi nel 2005 da Joe Wright. Ed ancora Mansfield Park (scritto nel 1814), diretto nel 2000 da Patricia Rozema. Emma (del 1815) sul grande schermo nel 1948 da Michael Barry e successivamente nel 1996 da Douglas McGrath e ben interpretato da Gwyneth Paltrow e Jeremy Northam. E infine Persuasione (pubblicato postumo 1818) diretto nel 1995 da Roger Michell. Ma anche altre opere si sono ispirate ai romanzi della Austen.
Pur vivendo nel periodo delle guerre napoleoniche, per Jane gli avvenimenti restano marginali e sullo sfondo dei suoi racconti, sebbene portarono a morire molti giovani. Con fremente senso della ironia ed una felice arguzia, Jane decora con grazia i suoi personaggi che popolano la campagna inglese, con un occhio sempre rivolto al sogno di felicità matrimoniale delle sue eroine. E’ dunque la donna, con i suoi tormenti e la sua ansia di amore – ci spiega la Worsley – a caratterizzare fortemente ogni romanzo, tanto da essere definita da Virginia Woolf come l’artista più perfetta fra le donne. Di certo Jane è stata una delle prime autrici a dedicare l’intero suo lavoro alla indagine dell’universo femminile. Le stanze della vita quotidiana restano il luogo ontologico e mai asettico della narrazione: abitudini e tradizioni restano influenzate da una certa geografia dell’anima, che si misura con le contingenze e persino la riservata campagna viene contrapposta alla corrotta città e ai suoi abitanti contro i quali Jane si schiera. Lucy Worsley evidenzia il suo “contributo a schiudere quelle porte che permetteranno alle successive generazioni di varcarle”; e ci accompagna con mano suadente verso quella poetica esistenziale così lontana, così vicina.
(Neri Pozza, 2018, pagg.479)