A Giorgio Albertazzi, ultimo combattente della Scena

albertazzi-e-castellanoChiude un altro sipario la scena eterna dei sublimi attori: se n’è andato anche Giorgio Albertazzi, toscano di nascita e di morte, che ambiva come i grandi di sempre a dare l’ultimo respiro proprio sul palco. “Ci sono pochi modi nella propria esistenza di sfiorare l’eternità, uno è il sogno”. Lo esclamava con quella voce calda, riconoscibile fra mille, attore ed autore di una purezza anarchica senza tempo, lui che aveva persino fatto parte della Repubblica di Salò ed ammirava le gesta di D’Annunzio. Ma che poi, negli anni della contestazione, stava coi sessantottini a declamare nelle fabbriche di Genova, versi rivoluzionari di poeti sudamericani. Forse per queste sue antinomie i giovani di allora non lo amarono abbastanza. Il primo ricordo va a quelle allucinazioni che procurò agli adolescenti del 1969 quando, in una intraprendente televisione in bianco e nero, turbò il sonno per le trasfigurazioni del Dr.Jakyll che diresse ed interpretò (da Stevenson). I mezzi televisivi non erano eccellenti, ma bastavano per farlo apparire di un’altra dimensione. E nell’85 lo troviamo sul sagrato della cattedrale di Melfi mentre, medievale, ripropone ad un pubblico che sia avviava a scoprire il teatro, testi su Federico II tratti da Edoardo Sanguineti e Raffaele Nigro; con lui un giovane attore locale, Giampiero Francese, che attinse non poco dal maestro. In una breve intervista che Albertazzi ci rilasciò, ci accorgemmo di essere al cospetto di un grande, e noi minuscoli, come ci accadde di fronte a Carmelo Bene.  Giorgio Albertazzi nasce a Fiesole il 20 agosto 1923, operoso ed animato di sacro fuoco, per decenni sulle scene, fra i primi divi televisivi, protagonista di letture poetiche e di sceneggiati di grande successo, come L’idiota di Dostoevskij. Il debutto sempre dal grande russo con Delitto e castigo e in teatro diretto ed amato da Visconti. Amleto e Il mercante di Venezia lo consegnano alla critica come fra i più intensi interpreti scespiriani di sempre.      Si era diplomato al ginnasio e quindi laureato in architettura; solo successivamente si dedicò alla recitazione in fotoromanzi, in teatro, al cinema e in televisione, dove debuttò nel gennaio 1954, appena 26 giorni dopo l’esordio della televisione in Italia, recitando in diretta la tragedia di Shakespeare Romeo e Giulietta in un suo programma televisivo dal titolo La prosa del venerdì. L’anno successivo inaugurò la trasmissione Appuntamento con la novella, divenuta un appuntamento fisso della tv italiana.                                                

Giorgio Albertazzi
Giorgio Albertazzi

In pieno secondo conflitto, nel 1943, aderì – dicevamo – alla Repubblica di Salò, ricoprendo il grado di sottotenente. Con la sconfitta nel 1945 fu arrestato con l’accusa di aver comandato a Sestino, il 28 luglio 1944, il plotone di esecuzione del giovane partigiano Ferruccio Manini e per collaborazionismo. Trascorse due anni in carcere alle Murate di Firenze, per essere poi liberato nel 1947 a seguito della cosiddetta “amnistia Togliatti“. Eppure Albertazzi dichiarò sempre di essere stato prosciolto in fase di istruttoria dal tribunale militare per non aver commesso il fatto.  Una vita turbinosa la sua, sempre alla ricerca di conferme sul proprio talento. Debuttò sul palcoscenico nel 1949 in Troilo e Cressida di Shakespeare, con la regia di Luchino Visconti al Maggio Musicale Fiorentino. Nel 1964, in occasione del 400º anniversario della nascita di Shakespeare, debuttò al teatro Old Vic di Londra con Amleto, diretto da Franco Zeffirelli e con protagoniste femminili Anna Proclemer e Anna Maria Guarnieri. Lo spettacolo rimase in cartellone per due mesi, e lo stesso attore verrà premiato con una foto nella galleria dei grandi interpreti shakespeariani del Royal National Theatre, unico attore non di lingua inglese.                                                     E’ dunque il palcoscenico la sua vita, perché sosteneva con ammirazione “Teatro è guardare vedendo”.         In Maria Stuarda, diretto da Luigi Squarzina nel 1964, farà coppia (come a lungo nella vita) con la deliziosa Anna Proclemer. Al Teatro alla Scala di Milano nel 1969 interpretò Edipo in Edipo re di Sofocle con musiche di scena di Andrea Gabrieli per la regia di Giorgio De Lullo, con Anna Proclemer, Renzo Palmer, Gualtiero Tumiati, Mario Erpichini, Gabriele Lavia, Alfredo Bianchini, Roberto Rizzi e Tonino Pierfederici. Amicizie artistiche da Calvino al conterraneo Zeffirelli saranno presenti nel suo percorso.         Anche il cinema di grandi autori come Alain Raisnais potrà contare sul suo estro: girerà oltre trenta film e col maestro francese L’anno scorso a Marienbad (1961) e qualche anno prima con Visconti Le notti bianche. Ed ancora con Luciano Salce e Pasquale Squitieri. Dirigerà il suo unico film nel 1970 con la Antonelli, dal titolo Gradiva, ma senza grandi esiti (problemi di produzione e distributivi, si disse).               La televisione ne ha spesso fagocitato il capriccio e l’ansia di sentirsi ammirato: persino un “Ballando sotto le stelle” di un paio di anni or sono lo vede protagonista, il più anziano di quel format.  “La felicità più che è un desiderio, è un’utopia” amava ripetere,ed ancora “Essere vuol dire desiderare, mentre l’avere, si sa, non è certamente frutto di felicità”. La sua vita è stata costellata di grandi amicizie. Come con Dario Fo: insieme in televisione per spiegare con talento e poesia la storia dell’arte. E poi le tante donne, di talento e di bellezza. “Se non ci fossero le donne, – ebbe a dire – la vita sarebbe come una stanza chiusa senza finestre. Noi uomini siamo molto più grezzi. Ecco, la donna è una finestra che si apre”. Si è spento a 92 anni nella villa di sua moglie, Pia de’ Tolomei, sposata nel 2007. “In fondo, se la vita fosse eterna, sarebbe noioso”, diceva, e non è stata per nulla tediosa la sua vita, sulla scena con i mille e mille volti. Ora potrà decantare il suo ultimo verso: “e tutto il resto è silenzio”.

 

 

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