Mattia Arleo
Da troppo tempo, noi cattolici abbiamo perso il significato del Natale. È questo il motivo per il quale ce ne andiamo in giro dicendo che tale festa “non si sente più”.
Nonostante il ricorso a simboli ed allestimenti natalizi, il Natale “non si sente più”. Anche il simbolo per eccellenza di tale festa, il presepe, ha perso significato.
Da molto tempo, infatti, esso è da noi stato ridotto ad una mera rappresentazione plastica della natività di Gesù, da allestire in occasione del Natale e da smantellare non appena il “senso” delle festività natalizie sia passato.
Allestiamo e smantelliamo, ogni anno, il presepe, illudendoci di sentire più forte l’ormai sempre più flebile “significato” del Natale.
Da troppi anni, quindi, confondiamo il “Simbolo” del Natale, il suo significato, con la “sensazione” delle festività natalizie e, siccome le nostre festività natalizie sono prive di “simbolo”, esse hanno sempre meno “significato” e, per questo, sono sempre più vuote.
Si confonde talmente tanto il “Simbolo” del Natale con il “senso” delle festività natalizie che molti sono pronti ad innalzare barricate a difesa del presepe, ma sono i primi a schierarsi contro l’accoglienza del forestiero.
Anche il presepe, symbolum del Natale, disancorato dal suo vero significato, è diventato, dunque, oggetto delle più svariate e contraddittorie strumentalizzazioni.
Quest’anno la Parrocchia Presentazione B. V. Maria di Francavilla in Sinni, con la realizzazione della quarta edizione del presepe “vivente”, ha voluto dare impulso alla riscoperta del vero significato del Natale.
Sotto la sapiente regia di don Enzo Appella, il quale si è occupato di far sì che la manifestazione non fosse solo folklore, ma momento di provocante riflessione, e grazie all’impegno tenace della maestra Silvana Gazzaneo e di molti generosi volontari che hanno offerto tempo e disponibilità, la manifestazione ha lasciato il segno.
Alla rappresentazione scenografica e teatrale dei diversi momenti della natività di Gesù descritti nel Vangelo di San Luca, alla realizzazione della quale hanno contribuito molti giovani e persone comuni, sono stati accostati momenti di intesa e stimolante riflessione sul significato della nascita di Cristo.
Il presepe è stato pensato come un percorso da svolgersi all’interno del centro storico, utilizzando gli angoli caratteristici del paese, con quattro fondamentali tappe: la prima, in Chiesa Madre, ha messo in sinossi la creazione del mondo, il peccato originale e l’annunciazione dell’angelo a Maria, con la toccante testimonianza di don Antonio Polidoro, parroco a Scanzano Jonico, accompagnato dalla piccola comunità di famiglie di rifugiati africani e dal seminarista Alberto.
La seconda tappa, presso la cappella di Sant’Antonio, ha focalizzato la visitazione di Maria a Sant’Elisabetta, mamma di San Giovanni Battista, con la provocante catechesi sulla carità di don Giuseppe Gazzaneo.
La terza tappa, presso la cappella di San Giuseppe, è stata dedicata alla natività, con la catechesi sulla bellezza ed essenzialità del Natale di don Antonio Lo Gatto.
Infine, l’ultima tappa, ancora in Chiesa Madre, è stata dedicata all’Epifania, ossia all’arrivo dei Magi, con le conclusioni del parroco don Franco Lacanna incentrate sulla solidarietà.
Durante il percorso, i visitatori sono stati spronati nel proseguire il cammino da dialoghi tra personaggi in costume come la fruttivendola, la lavandaia, il fabbro, il panettiere, lo spaccalegna, l’esattore delle tasse e, infine, il re Erode con la sua corte.
Caratteristica la presenza di un asinello vero e di alcune pecore, nonché di molti strumenti utilizzati in passato per la coltivazione dei campi o nell’ambito dell’artigianato.
Un unico filo rosso ha legato i diversi momenti di riflessione: l’accoglienza.
A partire dalla Creazione, l’uomo e la donna sono chiamati ad accogliere il creato e a curarlo, in quanto esso (che ricomprende anche l’uomo e la donna) è l’immagine di Dio.
Leggendo dai passi della Genesi ciò che Dio aveva creato e come aveva creato ciò che ci circonda, abbiamo potuto renderci conto di quanto, oggi, a causa nostra, l’immagine di Dio, impressa nel creato, sia stata sporcata, attraverso l’inquinamento e lo sfruttamento irrazionale delle risorse della terra.
Ci siamo resi conto della nostra incapacità di accogliere il creato così come Dio lo aveva a noi donato e continua a donarlo quotidianamente.
Sin dalla Creazione, inoltre, l’uomo, che è essere di relazione, è chiamato ad accogliere l’altro uomo, indipendentemente dal colore della sua pelle e dalle sue origini.
In un contesto sociale e politico in cui ci viene inculcata quotidianamente l’idea dello “straniero pericoloso” e della “immigrazione come minaccia per la sicurezza e la stabilità della democrazia occidentale”, noi cattolici siamo dunque chiamati ad andare controcorrente.
Siamo chiamati a fare ciò sin dalla Creazione. Il nostro DNA ci dice che noi siamo stati creati per accogliere l’altro nella nostra vita.
Del resto, Maria, Gesù e Giuseppe furono profughi, costretti a rifugiarsi in Egitto perché il potente di turno, il re Erode, piuttosto che vedere in Cristo la salvezza del suo popolo, vedeva in Lui una minaccia per il suo potere.
Erode rappresenta, perfettamente, tutti coloro che per paura di perdere qualcosa, vedono nello straniero una minaccia e non una persona.
“Maria e Giuseppe, per i quali non c’era posto, sono i primi ad abbracciare Colui che viene a dare a tutti noi il documento di cittadinanza. Colui che nella sua povertà e piccolezza denuncia e manifesta che il vero potere e l’autentica libertà sono quelli che onorano e soccorrono la fragilità del più debole” ha sottolineato, di recente, Papa Francesco.
Per questa ragione, ad interpretare la Sacra Famiglia, è stata una vera famiglia di origini nigeriane: Jeremiah (27 anni), nei panni di Giuseppe, Favour (25 anni), nei panni di Maria e il piccolo Fulfilment nei panni di Gesù bambino. Nei panni di Maria e Gesù bambino anche Abigail e Prosper, anch’essi originari della Nigeria.
Commovente è stata la testimonianza di chi, con coraggio e senza lasciarsi soprassedere dalla paura, ha accolto queste persone venute da lontano.
Ci siamo resi conto anche della nostra incapacità di accogliere l’altro, soprattutto se povero e straniero.
Ci siamo resi conto della nostra incapacità di abbattere le pareti dell’indifferenza, dell’incapacità di riconoscere Gesù in coloro che arrivano da lontano con una speranza nel cuore e con tanto dolore sulle proprie spalle.
Ci siamo resi conto che la nostra vocazione all’accoglienza, che è impressa nella nostra identità di cristiani, deve essere attuata ogni giorno, in modo che il Natale non finisca mai nella nostra vita.
Ogni volta che c’è accoglienza, infatti, c’è Natale.
Non diciamo, dunque, che il Natale è accoglienza, ma che l’accoglienza è Natale.
La quarta edizione del presepe vivente ci ha consegnato un messaggio: solo se avremo il coraggio di abbattere le pareti della nostra indifferenza e di comprendere che laddove c’è accoglienza c’è Natale, avremo la possibilità di riscoprire il significato vero e profondo di tale festa.
“Piccolo Bambino di Betlemme, ti chiediamo che il tuo pianto ci svegli dalla nostra indifferenza, apra i nostri occhi davanti a chi soffre. La tua tenerezza risvegli la nostra sensibilità e ci faccia sentire invitati a riconoscerti in tutti coloro che arrivano nelle nostre città, nelle nostre storie, nelle nostre vite. La tua tenerezza rivoluzionaria ci persuada a sentirci invitati a farci carico della speranza e della tenerezza della nostra gente” (Papa Francesco).