Emanuele Petrone
Sabato 15 settembre alle ore 20,30, nello splendido scenario della TURRA del Comune di Francavilla in Sinni, (che altro non era che la Foresteria dell’antica Certosa di San Nicola, luogo dedito all’ospitalità e all’accoglienza di chi non poteva entrare nei luoghi del Grande Silenzio riservato alla Clausura, ed anche luogo dove si riscuotevano i dazi) si terrà la presentazione dell’ultima opera letteraria di don Enzo Appella “Ad uno ad uno”.

Dopo i saluti del Parroco don Franco LACANNA che darà l’avvio alle argomentazioni del testo, don Gianluca BELLUSCI (Prefetto agli Studi nell’Istituto Teologico della Basilicata) guiderà i presenti attraverso una illustrazione dettagliata dell’opera, la sua relazione aiuterà certamente tutti a comprendere il pensiero che don Enzo attraverso questa sua opera vuole lanciare alla comunità cristiana contemporanea. Il Vescovo di Tursi – Lagonegro, mons. Vincenzo OROFINO trarrà le conclusioni.
L’opera in questione tratta l’aspetto dell’uomo nella sua umanità. A guidare l’autore in questa riscoperta dell’uomo, sono state alcune riflessioni su ciascuno dei dodici Apostoli e della Maddalena.
Questo libro è adatto a chiunque voglia riscoprire l’umanità presente in se stesso, lasciandosi guidare o attrarre dallo sguardo e dall’invito di Gesù a vivere pienamente il proprio essere uomini sull’esempio della Sua Divina Umanità.
A seguire la recensione di Emanuele PETRONE, studente della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, sezione San Luigi di Napoli.
Giuseppe Di Giacomo
RECENSIONE:
“Ad uno ad uno”
Come messo in luce anche dall’autore del testo Ad uno ad uno, don Enzo Appella, nel 2016 la Chiesa italiana tutta si è ritrovata a Firenze per vivere un momento di forte sinodalità e fraternità nel Convegno ecclesiale dal titolo “In Gesù Cristo, il nuovo umanesimo”, con il reale intento di voler gettare delle prospettive e dei cammini futuri per i prossimi anni. “Cercare l’uomo” è l’orizzonte che dirige i nostri passi: riscoprire la bellezza dell’humanum, prendere consapevolezza che proprio nell’esperienza di Gesù Cristo si cela la possibilità di realizzarsi, di crescere, di raggiungere le profondità del cuore, di scoprirsi nel proprio peccato. Di avvertirsi amati e amanti. «Se si vuol essere anche noi uomini pieni, non possiamo fare a meno di metterci alla sequela di Colui che l’uomo l’ha meglio di tutti incarnato facendolo coincidere con la Parola eterna. Con la lampada in mano, cerchiamo l’humanum attraverso i meandri della storia e troviamolo in Gesù» (p. 31). Non gettati in un pozzo senza fondo, baratro buio dal quale sembra impossibile uscire, ma ristorati dalla luce del Vangelo attraverso cui cercare le preziosità più recondite, quelle cadute sotto al letto ma anche quelle che, forse molto più spesso, siamo noi per primi a nascondere da qualche parte, per paura, perché ci costa fatica, perché “gli altri non lo meritano!”.
È la lampada della Parola incarnata – come ripete spesso don Enzo riprendendo la parabola lucana (cfr. Lc 15,8-10) – che ritrova la dracma perduta in casa e che spinge la donna a fare festa nel momento in cui la scorge sepolta da qualche parte. Nel mentre mi accingevo a leggere questo piccolo ma delizioso itinerario di umanità, mi colpiva particolarmente proprio questa immagine. Ritrovare la moneta, perduta lì nella propria casa, è altamente simbolico. La casa, luogo biblico della familiarità, dell’intimità, dell’incontro profondo, dell’ascolto reciproco, in questa piccola ma significativa storia diventa il luogo nel quale scompare qualcosa di importante e di valore e che, di conseguenza, mette in moto la protagonista perché la ritrovi proprio in casa sua. Quante volte, proprio nella familiarità degli affetti e nell’intimità delle relazioni, abbiamo smarrito qualcosa di prezioso, qualcosa che avesse valore nonostante ci fossero altre nove monete. Con fatica, come messi dinanzi allo specchio della Parola, l’abbiamo ritrovato. È l’humanum che smarriamo tutte le volte, uno sguardo umano, un sospiro umano, una fragilità umana. Non è altro che lo stesso percorso che l’Uomo Gesù fa compiere a coloro che ha chiamato, i Dodici, alla scoperta di ciò che, volontariamente o involontariamente, hanno loro stessi nascosto sotto il letto per poi dimenticarsene completamente.

Secondo un racconto ordinato, logico in tutte le sue parti, una penna sinuosa e accattivante oltre che diretta e senza troppi filtri, siamo invitati a sentirci fisicamente in cammino verso Gerusalemme, verso l’“Ecce homo” della croce (Gv 19,5) e verso il “Rabbunì” (Gv 20,16) nel giardino della resurrezione, non solo dietro a Gesù come “uno dei suoi” ma insieme ai discepoli come “fratelli”. Si sa, è proprio in famiglia che ci si conosce di più e spesso sono i rapporti tra fratelli i più autentici ma anche i più burrascosi. Perché ci si conosce, perché si è cresciuti insieme, perché si sanno effettivamente tutti i pregi e le difficoltà dell’altro. Proiettandoci figurativamente lungo il tragitto siamo anche costretti a toccare con mano le fragilità di questi uomini e ad assistere al lento lavoro di maieutica che Gesù compie con loro per farli venire fuori per quelli che sono. Perché è così che li ha amati, per quelli che sono. Grazie agli anni di studio passati a studiare e ad amare la Bibbia, all’approfondimento delle tecniche esegetiche e dell’analisi narrativa e soprattutto grazie ad una sensibilità tutta particolare, l’autore riporta con intelligenza, originalità e carità quello che in qualche modo anche i vangeli stessi si propongono di fare, il racconto cioè di una grandezza che risiede nella piccolezza dell’ordinario, nell’amicizia profonda con il Signore Gesù. Sembrano quasi una vera e propria staffetta i capitoli del libro con – a mio avviso – due sottili ma importanti differenze: ciascuno si ritrova legato all’altro e non separati a scompartimenti stagni e ad arrivare alla meta non è uno solo bensì tutti (o quasi!); il cammino non è di sola andata ma anche di ritorno perché una volta che colui che sta all’ultima postazione ha raggiunto il traguardo, non ha alcunché da fermarsi ma corre indietro (forse ancora più veloce) verso gli altri ad annunciare qualcosa di ben più grande di una semplice vittoria: è una fede ritrovata, un speranza rimarginata, una carità purificata.

È proprio così che Andrea, Giacomo di Zebedeo, Bartolomeo, Tommaso, Pietro, Giuda, Matteo, Giovanni, Filippo, Taddeo, Simone, Giacomo di Alfeo e Maria Maddalena si passano tra le mani non il passaggio del testimone, una semplice bacchetta di legno o di metallo da riporre nell’armadietto una volta conclusosi il match, ma l’esperienza di una vita trasfigurata dall’Amore. È così che ritrovano, anche soffrendo, la moneta che loro stessi avevano nascosto troppo a lungo. Soffrendo sì, perché quando si è catapultati sul teatro dell’humanun di sicuro è contemplata anche l’esperienza del patos, del sentire, del provare e dunque anche del soffrire. Più di tutti me lo ha mostrato, in questo testo, Pietro: le lacrime hanno un potere, «sciolgono le incrostazioni del cuore» (p. 167) e quando Gesù le guarda, proprio quello sguardo è trasfigurante. Leggendo queste pagine relative all’esperienza del “capo degli apostoli” pensavo ad un avvenimento che accade solitamente quando viene a trovarci qualche ospite a casa: si corre a chiudere alcune stanze, magari quelle messe peggio, buttandoci dentro anche tante altre suppellettili che destano scompiglio nelle altre stanze. Ecco, mi piaceva immaginare quel voltarsi di Gesù, quel “guardare-dentro” (emblèpo), nel cortile del sommo sacerdote come la chiave che spalanca proprio quella stanza che abbiamo volutamente chiuso a chiave, nell’ultimo tentativo di proporre all’altro un quadro ordinato, armonioso, nonostante il grave disordine che portiamo nel cuore. Più di tutti è Maria Maddalena che si ritrova spalancata la porta della casa, colei da cui «erano usciti sette spiriti» (Mc 16,9), e ora “è resa grande” (mogdàla), dopo l’incontro con il Signore resa all’altezza di essere apostola apostolorum, apostola degli stessi apostoli, esempio di misericordia perdonante. Monumento di misericordia. Più di tutti Maria “rimane” quando tutti vanno via (cfr. Gv 20,11), cerca e piange, come sottolinea l’autore. Cerca l’Uomo e piange da donna, da vera donna, da vera discepola. «Il discepolo deve sapere con cognizione di causa che cerca il Signore e non altri né tantomeno altro» (p. 330) ribadisce don Enzo verso la fine del viaggio.

“Umano” è anche sinonimo di libertà, celebrata nel testo come “dramma” per Giuda. Il capitolo su Giuda, provvidenzialmente tra i centrali all’interno del corpus, è di un’emotività sconvolgente e diventa per noi un modello da cui non prendere le distanze – come troppo spesso nel corso delle epoche hanno fatto tanti – ma da guardare, senza pensare ma solo e unicamente da contemplare nei dialoghi intessuti dal narratore tra lui e Gesù. Giuda non è adatto a capire l’amore, vede l’olio cosparso sui piedi del Cristo uno “spreco”, la preoccupazione per i poveri da sfamare è solo un pretesto perché non ama autenticamente il suo Signore. Giuda, dinanzi alla scelta a decidersi o per la luce o per le tenebre, sceglie le tenebre ma rimpiange la luce. Eppure, la cosa più sconvolgente a mio avviso, che l’autore mette in evidenza con dei passaggi delicati ma molto profondi, è che «per Gesù il primo pensiero non è la vendetta, ma è recuperare il suo discepolo, […] un ultimo e deciso tentativo a sottrarre l’uomo dal rischio di cadere nel baratro» (p. 196-197). Nella notte dell’Ultima Cena Giuda è riconosciuto “consegnatore” (e non traditore!) di Gesù ma allo stesso tempo una delle dodici colonne della Chiesa. Questa, a mio avviso, è una delle scene più toccanti e su cui fermarsi a meditare per molto tempo. È il mistero della libertà umana, del “dramma” della libertà umana, ma è anche il mistero dell’humanum tutto, della sua chiamata e della sua risposta. Giuda chiude la possibilità verso il futuro, ma è pur sempre “uno dei suoi”.
Che magnifico è il viaggio della sequela, che imperscrutabile è il cuore dell’uomo. Eppure «Se dico: “Almeno le tenebre mi avvolgano e la luce intorno a me sia notte”, nemmeno le tenebre per te sono tenebre e la notte è luminosa come il giorno; per te le tenebre sono come luce» (Sal 139, 11-12). Come luce sia l’humanum!
Emanuele Petrone