Giovedì Santo, ovvero della Cena del Signore (in Coena Domini)

Non si parla mai abbastanza dei primi tre giorni della Settimana Santa, quelli che vanno da Lunedì a Mercoledì, perché, almeno prima dell’emergenza allarmante creata dal “corona-virus” nel bel (si fa per dire) mezzo della quale ci troviamo, li abbiamo sempre vissuti come giorni ferialissimi, normali e monotoni nel dipanarsi della quotidianità sempre uguale a se stessa e con la stessa visione delle cose.

don Enzo Appella

Poveri tre giorni della Settimana Santa, così trattati! Li abbiamo ridotti al tacere con la nostra insolente e anche gradassa ignoranza teologica (la “scienza”di Dio), quando invece sono di una eloquenza strabiliante. E noi abbiamo bisogno, ora più che mai in questa valle desolata di lacrime e trapassata da cotanta bruttura, di eloquenza che infiammi il cuore di carne che ci pulsa in petto, che innalzi i nostri occhi al cielo azzurro, che riattizzi la nostra speranza qual tizzone smorto che tende a spegnersi. Da sempre, infatti, i primi tre giorni della Grande Settimana sono scrigni di grazia consolante non per gesti ulteriori rispetto a quelli già incantevoli, nella loro essenzialità, della Liturgia Romana che celebriamo ogni giorno, bensì per il loro serrato stringere la nostra concentrazione su di un punto fermo e ben stagliato dentro il vorticoso agitarsi di suggestioni appariscenti e accentuazioni polimorfe, il più delle volte bugiarde, a cui però tanto ci piace star soggetti, forse addirittura proni a mo’ di schiavi, nonostante ce ne lamentassimo a ogni pie’ sospinto. Come siamo incredibili! Come siamo duri! Il punto che s’abbozza come una tenera gemma primaverile sul tronco disadorno del nostro invernale procedere, qual è? Sta per scoppiare di vita, mentre però dichiara una morte incipiente: “era necessario”. Era necessaria quella spoliazione, così umiliante, così disadorna, così dis-umana! Con quale arma tu credi di vincere la violenza bruta se non con la tua mano dis-armata che acconsente pazientemente, rimettendo la propria causa ad un Altro? É con il bene che si vince il male! Per quel punto fermo il nostro sguardo può finalmente trovar tregua dal suo lussurioso e sfibrante roteare a destra e a manca; la nostra mente, dopo l’approccio scandalizzato e un tantino perbenista, può trovare il beneficio della calma che si tramuta, a mano a mano, in saporosa e fluente pace («e il naufragar m’è dolce in questo mare»); il nostro corpo si rilassa e si riposa in tanta fissità che ci stabilizza l’umore come roccia sicura e ci rende eterni, desiderosi di esserlo.

Il punto fermo è il volto “non-volto” del Servo Sofferente di cui ci parlano le prime letture della liturgia di Lunedì, Martedì e Mercoledì Santo. Il Libro del profeta Isaia, alla maniera dei musei blasonati, tra i suoi capolavori ostenta i cantici del Servo di Adonai (Dio), talmente intensi da essere annoverati tra i migliori della letteratura mondiale e tra i più ricchi della spiritualità di tutti i tempi. Sono pur sempre Parola di Dio! Brillano al pari del diamante sfaccettato dell’anello del Re. Lunedì si legge Is 42,1-4; Martedì tocca a Is 49,1-6; Mercoledì è la volta di Is 50,4-9. Ce n’è un quarto, il più toccante, il più straziante, il più plastico nella capacità di rappresentarci il dolore innocente, la sofferenza del giusto che paga per i peccati di tutti gli altri, per i nostri, da Caino, anzi da Adamo, fino a me e a te oggi: Is 52,13-53,12, che si legge Venerdì Santo. Una generosità, quella del “giusto anonimo” negli inni evocato, che, sorprendendoci, ci spiazza. Essa tramuta il nostro chiacchiericcio vanitoso in un silenzio che si fa accesso alla profondità che non abbiamo ancora osato. É un buon esercizio d’ingresso nella solenne costruzione del Triduo pasquale rileggere i canti di Isaia, la liturgia ce lo ha appena fatto fare, e lasciarsi così trapassare l’anima dalle loro parole, che non sono parole e basta (flatus vocis), ma sottili lamine che aprono spifferi a una boccata d’aria, sono stelle copiose che trapuntano il cielo della nostra distrazione rendendolo vivido nonostante la notte o proprio perché è notte. Ricordo solo qualche espressione che di sicuro custodiamo nella memoria tra le cose più affezionate, le sentiamo nostre, ci appartengono, si è come raffigurati da esse, per ogni volta che abbiamo subìto un’ingiustizia, abbiamo avvertito non meritato un dolore lancinante, abbiamo vissuto sofferenze umilianti; per ogni volta che ne abbiamo inferte noi ad altri.

“Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi… disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima”.

Poi continua:

“Eppure egli s’è caricato delle nostre sofferenze, s’è addossato i nostri dolori… Egli è stato trafitto per i nostri delitti”.

Ed ecco la frase clou, che ci stana dalla formale religione, dal nostro stupido ringalluzzire, dalla strettezza della nostra ipocrisia:

“per le sue piaghe siamo stati guariti”.

Icona del Nymfìos, lo sposo

Chi è costui che ha permesso questo, sulla pelle del suo corpo arata come il maggese d’autunno, sulla sua carne piagata e piegata senza pietas, con il plasma dell’effluvio generoso del suo darsi? Può mai esserci veramente qualcuno che paghi il conto, così salato, per noi? Se sì, sarà un parente, un amico, un coniuge, un mentore! Eppure, quanto tradimento sperimentiamo persino da questi! Facciamo finta di non saperlo perché, a ripensarlo, ci ribolle il sangue dalla rabbia, ci amareggiamo come giammai. Chi, allora? É solo un’immagine, una metafora, una sorta di visione nel sonno disturbato, una pia fraus, una chimera? Diciamocelo pure: noi non crediamo che ci possa essere tanta bontà in giro, un simile eroismo che non cerchi poi, anzi immediatamente, il contraccambio. Noi siamo quasi sempre malpensanti, diffidenti, sospettosi. Non è per caso vero? É lo stillicidio di Satana nelle nostre esistenze. E invece quel Sofferente Servo da Isaia mai nominato, croce e delizia degli interpreti, non resta per sempre anonimo. Troppo comoda una simile indecisione, troppo furba una nebbia così vaporosa. La nostra fede cristiana dirada la coltre e svela ciò che il drappo della genericità occulta. Essa ci insegna a dar corpo, a rendere sostanziale, a recepire il concretuum. Il Servo ha un nome: Gesù. Quel volto guastato dalla violenza umana, dalla superbia dei nostri difetti, ogni volta che abbiamo colpito a tradimento il nostro personale umano e, per questo, abbiamo ferito i nostri fratelli, è il volto sereno nonostante gli sputi, il sangue, le tumefazioni e le ferite aperte, di Gesù. É il volto bello del Signore nonostante la maschera di dolore che gli abbiamo imposto. É il volto mansueto dell’Agnello che prende e porta su di sé il crimine del mondo. Ecco, i primi tre giorni della Settimana Santa ce lo lasciano intravedere il bel volto del Servo Gesù. E oggi, Giovedì Santo, vigilia della sua morte in Croce, ci è presentato in un prodigio di semplicità che ci commuove, come nostalgia d’atavica sorgente. Ci vien fatto vedere il volto nientemeno che riflesso nel catino in cui il Servo Signore lava i piedi dei suoi Apostoli. Di quel volto, Giovedì Santo ci dà lo spessore, facendoci assistere allo spezzare la consistenza del pane fragrante perché diventi boccone di comunione per tanti, per tutti, nessuno escluso, cibo per i poveri, per chi si riconosce tale, per gli esclusi dal banchetto dei buontemponi. Di quel volto, oggi è proposto il gaudio soave mentre si solleva il calice di vino rosso che presta la “specie” al sangue salutare, il sangue della Carità senza limite.

Meraviglioso Giovedì di cena! Stupendo Giovedì d’Amore! Non è il bivacco degli amici, l’afflato dei conoscenti, la festa dei parenti. É il talamo degli sposi, l’intimità degli amanti, mentre la fioca luce si sprigiona dall’annoso ceppo che, avvampato, ormai tutto riscalda. É liturgia di chi decide, appresso al Maestro, di imitare la sua scelta. Vale tutta la vita impersonare quel muto Servo, il mansueto Gesù nostro Signore, perché risorga la speranza dal cumulo delle macerie a cui ci siamo ridotti. Non possiamo quest’anno affollare le nostre chiese; non possiamo accorrere nell’Aula della santa Cena, dove s’espande il profumo dello sfornato fresco: pane per tutti, pane per saziarci, pane di sudore e di gioia. Un altro cenacolo ci è chiesto di preparare per il Signore, per la sua Pasqua: il nostro più intimo cuore. Chi l’avrebbe mai detto? É un’occasione preziosa per adoperarci in sincerità, come non abbiamo fatto fin’ora. Forse per troppe volte ci siamo adoperati, addirittura affannati, per addobbare la stanza superiore, quella di rappresentanza, dove appare tutto ben composto, dove sopra i tappeti non si possono udire le urla feroci dei nostri dubbi, delle maledizioni che spariamo come proiettili di cecchini, dei singulti amari della nostra delusione; dove non sale il maleodorante lezzo della malizia dei nostri contorcimenti. Nella stanza di sopra siamo tutti bravi a ospitare il Signore riconosciuto potente e padrone, e che ci vuole?! Forse, la precarietà, l’impedimento a causa del morbo che infesta la nostra aria, è permessa da Lui perché imparassimo una buona volta a scendere al piano inferiore, nel sottoscala della nostra verità, la quale non è affatto limpida. Accogliere proprio lì il suo caderci ai piedi nudi e sporchi per lavarceli, per baciarceli, è una cosa inaudita. Volevamo un Dio di gloria e ci siamo ritrovati con un Volto Ammaccato! Volevamo un Dio Onnipotente, pronto a risolvesse i nostri drammi, e ci siamo ritrovati con un Servo Sofferente! Quanto abbiamo da meditare, questo Giovedì Santo. Dov’è finita la sicumera della nostra intelligenza? Che Dio è un Dio così? É il Dio di cui abbiam bisogno! Egli è il Dio che ci salva, ci salverà, ci ha già salvati!

Gesù e il Discepolo amato

Come non piangere di gioia allora?! Tutto ha un senso e, soprattutto, tutto è grazia. Saremo pure isolati, ognuno per conto suo, obbligati, controllati a vista, ma scendendo giù fin nella camera della nostra umiltà ci riapproprieremo di un sincero desiderio di relazioni, di una incontenibile voglia di comunità, di un tremendo bisogno di perdono reciproco, di una indomabile voglia di volerci bene, di amarci senza tornaconto. In una parola, in quella stanza dove viene a inginocchiarsi il Signore Servo ci ritorna il gusto di vivere, smettendo la recita del mortificante sopravvivere. Impediamo, in questo Giovedì Santo, che il “monossido di carbonio” della indifferenza ci addormenti dolcemente ma spietatamente alla morte spirituale. Coraggio! Il volto “squalificato” di un Servo Sofferente riacquista splendore di gloria sui nostri piedi nettati, sulla tavola imbandita della prima Comunione, nel pezzo di pane condiviso e nel sorso di vino inebriante di Spirito. Coraggio! Dio viene ancora! Prendiamo posto: è la sua Cena, la Cena del Signore.

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