Domenica di Pasqua, ovvero della Risurrezione del Signore (De Resurrectione Domini) … fino all’Ottava

Da stanotte, a cavallo dei loro rintocchi a festa, le campane si sono accordate per far rimbalzare il più lontano possibile dagli alti campanili le note del Gloria, imbavagliato per l’intera Quaresima a ricordare, qualora ci si fosse distratti, che la vita non è facile per alcuno.

Gesù risorto e la Madre

Non è facile per gli umani, non lo è per gli animali e neanche per la vegetazione con il carico di sfruttamento inquinante che gli abbiamo addossato. La melodia di un antichissimo canto, l’Exultet, che se non ci dice che la vita è facile ci dice almeno ch’essa è possibile, s’è librata, puntuale, in volo con ali di colomba dall’intimità di chiese povere di popolo e ricche dei ricchi gesti geminati dal ceppo secolare della liturgia. Ha proclamato, facendo gorgheggiare cantori preparati all’uopo, che lui, Gesù, vive. La fine, ovvero la morte, non ha potuto contenerlo nel suo castigo. Il Cristo di Dio è veramente risorto e noi con lui. Ci ha salvati dalla morte, da qualunque morte, soprattutto dalla morte quotidiana, la più dura a morire, che, con fameliche fauci e chirurgico morso, persiste, ossessa, a inchiodarci a visioni troppo corte, di quell’immediatezza che par novellare tutto e tutto lascia intatto, come se navigassimo a vista, dimenandoci scompostamente adesso che l’emergenza virale ci ha sorpresi. Abbiamo bisogno di larghe prospettive, di lunghe gittate, oggi come ieri, forse più di ieri, giunti come siamo al bivio della storia, altrimenti che futuro speriamo d’ottenere? Non si può replicare il passato recente, un modus vivendi che c’ha portati ad essere domati dall’invisibile, noi che abbiamo cercato a costo dell’anima la visibilità e la cresta dell’onda più che la profondità del solco. Bisogna chiudere con ieri, rinnovarsi nel cuore e nella mente. É tempo di riformularsi nella prassi quotidiana, civile, sociale, politica, religiosa. É tempo di muta. É ormai un’esigenza improcrastinabile. La Resurrezione di Cristo sale in cattedra: e come non potrebbe, lei che ha polverizzato la lastra tombale, quando altri maestri, quelli del “sospetto”, hanno alzato solo polvere e ci hanno ingannati? I batacchi continuano ad aggravare l’aria calda della primavera in corso, da stamattina e per tutto il giorno, per tutta la settimana, fino a Domenica dell’Ottava, e ci invitano a prender parte alla sua lezione, alla lezione della “primizia di coloro che sono morti”. Le bronzee campane non s’arrendono, paiono non averne voglia: la mano di ministri appassionati o di loro fidati collaboratori non v’allenta la presa, adesso ch’essi s’accorgono della cosa più importante che han da dire. In fondo, a nessuno dà fastidio, anzi! Vorremmo quasi tutti che si prolungasse fino all’esaurimento delle scorte deposte con cura nella dispensa dell’abitudine. Ci fa davvero piacere sentirle, insistenti, sì, ma suadenti, dipanate nell’etere come gli arabeschi d’incenso nella solennità. É una lievitazione che ci prende dal fondale del nostro scuro e ci esalta. Non a caso il verbo più certificato a garantire la Pasqua, parola ebraica per dire “salto”, è proprio esaltare. Ci volevano, le campane “a gloria”, a ornare i giorni di disorientamento non ancora cessato. Almeno fermano un punto nella nostra volubile inquietudine, paiono assicurarci un porto nel fluttuare di burrasca in cui siam capitati coi nostri vascelli che credevamo capaci di sfidare l’oceano e, invece, si sono rivelati essere zattere di precarietà assoluta. Ci piace ascoltare i loro acuti, felpati dalla distanza. Giungono a noi come il garrito prima spianato e poi intrecciato di rondinelle attese con patema e, ora, eccole a solcar finalmente l’aria sopra di noi, fiondando briose sull’ultime pozzanghere di fine stagione. Porzioni di creta esse sanno sollevare, su su, impiastricciando il cornicione del muro antico con una pazienza d’altra specie e con millenaria sequenza che non sbaglia più neanche un colpo.

fiori di melo

Un nido ci sarà, questo è certo, com’è certo che la vita in esso non s’interromperà! La Pasqua, esplosione di luce nella Notte più solare, aziona un riverbero che galoppa libero e liberante, più su che giù, come nastro argentato fissato alla bacchetta della giovane ginnasta, sulle nostre chiusure sepolcrali. Lo fa da duemila anni. Avremmo dovuto imparare a desiderarlo, quel riverbero, come gli orientali il Monsone e, una volta a noi giunto, raccoglierne il frutto maturo e sfamarci il dappertutto. É grandioso veder venir divelta l’occlusione, una grazia senza fine: riprende il flusso salutare. Dovremmo ammetterlo, nonostante la barricata del consentito dubbio. Il tepore ci risveglia da un letargo che ormai ci stava stretto, ci affamava. Si lievita come pasta nella madia che, silenziosa e generosa, tracima dal perimetro. S’abbatte la frontiera. Abbiamo voglia di uscire, di metterci a correre, di venire allo scoperto mentre la quarantena imperversa di cimitero ingrassato. É la pressione del germoglio, che prende forma nell’anima, a reclamare il suo diritto ad esistere, a penetrare il mondo, questo mondo di morti. Un fardello di malinconie dispettose ci attarda: volentieri lo buttiamo all’aria dando fondo al risparmio di forze che ritenevamo essere utile per una incerta sopravvivenza.

Alleggeriti, è più facile arrivare per primi al Sepolcro come dei seguaci semplificati, come i discepoli benamati. L’intuizione che i maestri avessero ragione ci rende perseveranti, coraggiosi, finanche orgogliosi. Le campane slegate ci danno il senso che qualcosa è avvenuto. Non sappiamo spiegarlo neanche a noi stessi, figurarsi di riuscirci con chi dovesse chiedercelo. Siamo sicuri, però, assecondando l’infallibilità dello spirito, che qualcosa veramente è successa. Non si tratta solo di un fatto puntuale, circoscrivibile in un lontanissimo passato, imbalsamato ormai in formule rituali che scivolano sulle teste dei più. La grammatica greca impiega non più il tempo al passato come per la crocifissione in esso esaurita, ma un tempo speciale per l’evento più speciale della storia umana, il tempo perfetto che sprigiona conseguenze nel profluvio delle stagioni, dei secoli, dei millenni fino a noi.

don Enzo Appella

Il Risorto è un fatto nostro, ci riguarda; è un fatto del presente, di adesso, lambisce la soglia della nostra casa, è qui in mezzo a noi. Non è commemorazione e basta, ma celebrazione; non è passato trasfigurato e basta, ma presente che feconda e ingravida il futuro. La Risurrezione di Gesù non c’entra solamente con la nostra fede, perché concima copiosa l’interezza della nostra vita, persino questa nostra carne per cui tanto ci diamo da fare e che tanto ci fa soffrire. Il nostro corpo può ben sperare di ritrovarsi. Sarà altro, ma non sarà distrutto, bensì trasformato. Il Cristo risorto ci infonde un’indole, l’atteggiamento vincente nel combattimento del momento. É come se il suo sapore avesse condito ogni spazio, ogni sussulto, ogni situazione, ogni singulto, ogni cosa, ogni uomo. Tutto illumina e gonfia di vita: in quell’indole si vive apertamente, non più all’ombra. L’icona più proficua di questi giorni pasquali non è data dal collegio apostolico, ma da personaggi minori come i discepoli di Emmaus o da protagonisti discussi come Maria Maddalena. Il primo Vangelo s’attarda in un particolare che, se non fosse d’ironia sanante, sarebbe inquietante. Racconta che “il primo giorno della settimana (ebraica)”, e cioè la nostra Domenica, le donne, di buon mattino, s’avviarono al sepolcro del Maestro non vedendo l’ora di terminare quel che la Parasceve aveva loro impedito, e cioè un seppellimento a norma. Sapevano che all’imbocco della camera funeraria scavata nella roccia avrebbero trovato il grosso masso. Avevano visto, sebbene a distanza, come l’avevano seppellito il giorno prima quel Crocifisso pietoso. Non erano all’oscuro della pesante difficoltà. Nonostante ciò, quasi con la clessidra in mano, nel mentre prendeva piede l’albeggiare (“Notte, tenebre e nebbia fuggite, entra la luce”, dice l’Inno), corrono al sepolcro e, per la via, quel muliebre drappello capeggiato dalla Maddalena si chiede come fare: l’una chiede all’altra “Chi ci rotolerà via la pietra dalla tomba?”. Verrebbe da insultarle: ma come?! Sapete giacché eravate là presenti, avete constatato lo spessore dell’impedimento e, invece di trovare una soluzione abbordabile come il richiedere l’ausilio di qualche corpulento apostolo, vi avviate solitarie al giardino cimiteriale con leggiadro passo di danza nuziale ed entusiasmo alle stelle? Che grande insegnamento per noi, appesantiti dalle nostre affezionate pietre tombali, e che ora facciamo ingresso nella bellezza sfolgorante della Domenica dell’Ottava, da poco titolata la Domenica della divina Misericordia. Le donne diventano in questo tempo di Pasqua le nostre catechiste, le nostre apostole, i nostri candelabri a sette braccia, le rivelatrici dell’autentico senso dell’evento piovuto dall’alto. Lo sanno che sono impedite, ma l’amore “folle” per quel Signore di una vita le ha spinte ugualmente ad andare solerti, armate, anziché di piede di porco, spranghe e fulcri, solo di olio balsamico e resine odorose. Non sanno come potranno fare, eppure procedono sicure che qualcosa lì succederà. E di fatti non sono neanche arrivate che si rendono conto che nulla sarà più come prima. Il giardino è fiorito. La carne di Cristo è rifiorita. La pietra è sgabello per il piede del messo celeste. Gesù è risorto, non è più lì ed è dappertutto. Apprendiamo questa logica che schioda la nostra potenzialità di farcela, anche nei giorni tremendi che ci tocca sopportare, dalla nostra mediocrità, dalla umiliante nostra rassegnazione, dal nostro superstizioso fatalismo, soprattutto dalla nostra incapacità di credere. Ripetiamo spesso con il personaggio del secondo Vangelo: “Signore, io credo, aiutami nella mia incredulità”. Allora sfolgorerà il sole di Pasqua non solamente a Pasqua, non solamente nella settimana in albis, non solamente nell’Ottava, ma per tutti i giorni dell’anno, per tutti i giorni della vita. Abbiamo voglia di chiamarci tutti con lo stesso nome nuovo: Pasquale. Abbiamo un pressante bisogno di qualificarci tutti quali “figli della luce” che, dalla cima dell’adornato Cero pasquale, si irraggia per tutte le nostre strade, per tutte le nostre abitazioni. Auguri, allora. Buona Pasqua oggi e per tutte le Domeniche che verranno.

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