Annibale Formica
Riceviamo e volentieri pubblichiamo l’intervento dell’ing. Annibale Formica, Presidente Comunità del Cibo alla IV edizione del cece ribelle – Festa della Biodiversitù e del cibo – Latronico 4 settembre 2021
Il “cece ribelle”, alla sua IV edizione ieri pomerigio a Latronico, fa storia. A me ha suggerito di parlare dei “semi antichi” nella loro funzione di tutela dell’agrobiodiversità; di quella biodiversità agroalimentare che salva il pianeta e l’umanità.
I semi antichi sono importantissimi per la loro storia e per le loro caratteristiche botaniche ed organolettiche e garantiscono la sostenibilità.
La Comunità del Cibo e della Biodiversità, nelle sue considerazioni sul tema, perciò, non può prescindere da un approccio agroecologico.
È indispensabile partire sempre dalla protezione che dobbiamo assicurare alla <casa comune>, ricorda, in un comunicato stampa di questi giorni, la Diocesi di Tursi-Lagonegro a conclusione del percorso ecclesiale “In ascolto del Creato”. Dobbiamo non solo curare ma anche aver cura della <casa comune>.
Dal pre-Food System summit 2021, svoltosi nella sede della FAO a Roma a fine luglio, giunge la raccomandazione di “immaginare un modo per nutrire il Pianeta senza depredarne le risorse”.
Le riflessioni in tal senso evidenziano la necessità di tutelare i modelli alimentari legati al territorio, alla cultura, alla storia e alla geografia del Paese e di rafforzare il valore sociale, identitario dell’alimentazione; un valore che unisce le persone, che crea appartenenza territoriale, che costruisce condivisione e legame sociale attraverso il cibo.

Nell’articolo pubblicato sul n. 16 de “I Quaderni dell’Alsia” (Supplemento al n. 100 di Agrifoglio, del dicembre 2020), la Comunità del cibo e della biodiversità di interesse agricolo e alimentare dell’area sud della Basilicata (Pollino-Lagonegrese) pone l’accento sull’importanza vitale dell’azione di tutela della biodiversità ai fini del mantenimento dell’integrità ecologica degli ecosistemi sia naturali sia coltivati.
La ricchezza di biodiversità e i semi antichi sono beni essenziali alla vita dell’uomo; ed evocano il “genius loci” e il valore culturale ed economico dei prodotti Dop e Igp.
Nel dibattito in corso sulla ripresa economica, una posizione di rilievo è riconosciuta alla crescita dell’export agroalimentare non solo dell’industria del settore, ma anche (e soprattutto) dell’agricoltura dei singoli custodi di biodiversità, dei produttori di Dop e Igp.
Le eccellenze agroalimentari del nostro territorio esercitano grande appeal nei confronti del turismo, in particolare del turismo lento, consapevole, basato sulla fruizione sostenibile delle risorse naturali e culturali locali. È il grande appeal di un nuovo modo di fare turismo, di viaggiare, di andare per itinerari, come gli itinerari dei prodotti agroalimentari tradizionali, lungo i quali non conta tanto la meta, quanto l’esperienza che si fa (con i cinque sensi).

La promozione dell’agricoltura, quale fattore fondamentale e primario di conservazione, di protezione ambientale e di sviluppo durevole, va, ovviamente, di pari passo con la valorizzazione delle specie autoctone e con il mantenimento delle tradizioni locali.
La biodiversità si salva difendendo le comunità locali e gli agricoltori; la sua salvaguardia è legata alla capacità di coinvolgere chi lavora a stretto contatto con la natura.
Si salva, però, coltivando anche la memoria.
Coltivare la memoria come investimento per il futuro è stata la parola d’ordine da me utilizzata per sottolineare l’importanza di mantenere vivo il passato, di animare il presente e di aprire la mente al futuro. Un laboratorio di memorie, a tal fine, è il lavoro nel paesaggio rurale.
Un ruolo di prim’ordine lo svolgono le tradizioni locali e i semi antichi, che racchiudono in sé la memoria del passato, del presente e del futuro e che producono frutti di qualità, proteggendo l’ambiente e salvaguardando l’agrobiodiversità.
Dall’articolo “Contadino per scelta e per amore: così si salva la biodiversità della terra”, di Pasquale Raicaldo su la Repubblica Napoli del 18 ottobre 2020, ho saputo di agricoltori custodi, impegnati a salvare la biodiversità della propria terra, della terra dei loro genitori, dei loro nonni. Coltivano piccoli appezzamenti di terreno ad antica vocazione rurale, in cui alla fertilità dei suoli aggiungono la loro bravura, la loro passione, difendendo dall’estinzione le varietà di cui sono custodi. Si rischiava di perdere la biodiversità dell’area e delle colture. Loro hanno recuperato il germoplasma e riprodotto i semi originari.
Seguendo un disciplinare che garantisce una produzione di qualità ecosostenibile ed ecocompatibile, sono diventati, così, agricoltori custodi. E i loro prodotti rappresentano la propria unicità e ne raccontano la storia. Con la forza dell’identità competono sul mercato.
“Voglio andare a vivere in campagna” era il titolo della recensione di Paolo Mauri, di qualche giorno fa, del libro di Nicolò Reverdini: “Anche l’usignolo. Vita di città, di bosco e di campagna”, nel quale si descrive il viaggio alla riconquista della campagna, un viaggio verso il passato per cercare nei campi lo specchio di una antica sapienza. L’antica sapienza del cece ribelle di Latronico.