Giuseppe Peluso
Era nato a Conocchielle a fine ottocento Felice Faillace, detto Zio Felice. La famiglia era originaria di Morano, amena cittadina sul versante Calabro del Pollino, testimone di eventi che hanno segnato la storia d’Italia.
Felice trascorse la giovinezza tra le contrade che si affacciano sulle sponde del Frida, tra il verde e l’armonia delle mille fontanelle. Conduceva il gregge in luoghi dove un tempo erano stati teatro di scorrerie della banda di Antonio Franco e Serafina Ciminelli.
Le loro ombre volteggiavano ancora nella fantasia del giovane Felice. A Mezzana viveva Gennaro Jannarelli, il Capitano delle Guardie Mobili Nazionali, mandato a reprimere il brigantaggio con metodi brutali.
Gestiva una proficua attività industriale e, si dice, che abusasse delle giovani donne che andavano al mulino per farina.
Scomparve nel 1892, dopo aver ceduto l’attività a tal Giuseppe Rossi.
Nel 1914 Felice fu precettato per andare a fare il servizio militare; partì con l’orgoglio di dare il suo contributo alla Liberazione dell’Italia.
Si lasciò alle spalle il Borgo, le pecorelle e i compagni di infanzia, con i quali aveva trascorso giorni “felici”; non immaginava come, a volte, sia ingannevole il nome che porti!
Raggiunse a piedi la strada delle Calabrie che Borboni e Francesi fecero costruire ad inizio ottocento, sull’antica via Popilia.
A Napoli vide per la prima volta il mare e i bastimenti, pronti a salpare per le Americhe lontane. Tanti giovani lasciavano la moglie e i figli per cercare fortuna, spesso in un viaggio senza ritorno!
Alla stazione una lunga tradotta già ruttava fumi neri e appena i vagoni furono stracolmi, un ometto buffo fischiò tre volte e il treno partì.
Al primo stridore delle rotaie , Felice cadde in un sonno ristoratore. All’alba si affacciò al finestrino e vide paesini arroccati sulle montagne: Felice cercava in essi le somiglianze al Borgo natio! Nei campi gli apparve un gregge al pascolo. Assalito da nostalgia struggente, si mise a gridare il nome delle sue pecorelle! Bianchina, nerina, palombella, ripeteva a squarciagola.
Quelle alzarono la testa e volsero lo sguardo verso il treno e risposero , belarono! Felice continuò a chiamare incurante dei compagni che lo guardavano, tristi anche loro! La tradotta scomparve in galleria e per Felice tutto divenne buio!
In Val Padana vide lunghi filari di pioppi che spuntavano dalla nebbia fitta, come ombre fuggitive. Il treno rallentò ancora la sua corsa quando attraversava il lungo ponte sul fiume Po. Felice guardava le acque torbide che lente, trascinavano verso il lontano Adriatico ciò che incontravano nel loro percorso; pensava a quale atroce destino fosse andato incontro se il ponte fosse crollato con il peso del treno!
A Sacile un militare si avvicinò alla carrozza e chiamò : “ Felice Faillace, scendi”!
Felice restò meravigliato che qualcuno, così lontano dai suoi amici, lo conoscesse! Fu portato in caserma e assegnato al Reggimento Fanteria Misto.
Dal 23 maggio del 1915, giorno della dichiarazione di guerra all’Austria, le battaglie si susseguivano sanguinose. Felice scavava trincee e sentiva il sordo rimbombo di obici e cannoni. Vedeva, trasportati a Valle, i corpi straziati dei soldati caduti sulle alture del Carso. Non aveva notizie della famiglia, ma lui continuava a scrivere: “cari genitori, vi faccio sapere che io sto bene e che voi state bene. ”
Dopo la disastrosa rotta di Caporetto del 1917, l’esercito italiano passò al contrattacco e a settembre del 1918 costrinse i nemici alla resa.
Qualche giorno dopo Felice fu chiamato a rapporto dal suo Capitano che gli parlò della Grande Guerra e della Patria Libera.
Gli consegnò il foglio di congedo illimitato, ma provvisorio, aggiunse, perché “le guerre sono sempre dietro l’angolo”!
Felice salutò e corse a prendere il primo treno per Mestre e Bologna, dove fece cambio con quello più veloce per Napoli. Dopo un mese circa rivide il fumo spuntare dal comignolo della sua casetta nascosta tra le siepi dell’amata Conocchielle. Trovò la mamma invecchiata e vestita di nero, segno di lutto, per la sua lunga lontananza. Si abbracciarono e versarono lacrime di gioia.
Il tempo che scorre veloce e scandisce gli anni, non risparmiò Felice che, solo e cagionevole di salute, andò a vivere a casa della sorella Angiolina. Nel dicembre del cinquanta nel Borgo fervevano i preparativi per festeggiare il Santo Natale. Angiolina aveva predisposto con cura la cena con le “nove cose di natale” e sotto il camino il “zippone” ardente sprigionava calore e scintille. A mezzanotte tutti cantarono : “Tu scendi dalle stelle, o Re del cielo…”
Sul villaggio era sceso un surreale silenzio: la neve inattesa scendeva da ore copiosa. Angiolina si alzò di buon mattino, come sua abitudine, e andò a bussare alla porta dello Zio, ma non ebbe risposta. Felice era ormai immerso nel sonno della notte che libera gli uomini dalle terrene sofferenze!
I vicini accorsero ad aiutare a sistemare la salma e a recitare il “Te Deum”. Un artigiano predispose la bara con le tavole strappate al vicino fienile. Quattro giovani robusti si apprestarono al trasloco della salma nel lontano cimitero. Erano accompagnati da Nicolino, il nipote prediletto di Felice. Superarono non senza difficoltà il torrente Faucicchio e lambirono la chiesetta di Varco, invocando l’aiuto del Santo di Paola. Prima di scavalcare la cima dell’alto colle, decisero di fare una breve pausa e adagiarono la bara sulla neve ghiacciata.
Gennarino, tirata dalla tasca la tabacchiera, arrotolò una sigaretta con il tabacco grezzo dell’orto e la “coppa” di granoturco. L’accese e, a turno, facevano tiri profondi; aspiravano con voluttà quel fumo aspro quando si accorsero che la bara scivolava verso il fossato!
Tentarono di fermarla, ma tutto fu inutile. Solo una robusta pianta di “pera pastura” che i pastori custodivano con cura per l’ombra e i suoi frutti ormai rari, ne arrestò la corsa! Felice, riverso sulla neve, integro, indossava alla perfezione la divisa militare che aveva gelosamente custodito per anni!
Gennarino guardandolo esclamò: “ma Zio Felice credeva proprio di ritornare a fare la guerra”! Felice aveva anche comperato da tempo la stoffa per il vestito della dipartita, ma Angiolina vi fece cucire per sé l’abito domenicale. Nel cimitero tumularono in fretta la bara perché la fame e il freddo mordevano lo stomaco.
A Viggianello non mancavano cantine e taverne, scelsero quella di Trastanambunna, situata nella parte alta del Paese. Imboccarono via Timpone con i suoi innumerevoli gradini. In uno spiazzo si affacciava un palazzo imponente, con inferriata e chiesetta gentilizia, connubio tra il Potere laico e cattolico, dominanti la Comunita’ sottomessa! “Qui abita l’avvocaticchio”, disse Gennarino cacasenno, “quello che vince quasi tutte le cause”!
Viggianello era un paese di rissosi e litigavano per un nonnulla. Le “requeste “ volavano e quasi sempre ricorrevano all’avvocato. Questi era basso e gobbo, con occhi luciferini. La Pretura vicina era quasi sempre retta da un vicepretore onorario e un cancelliere, suoi stretti congiunti! Quando il cliente si presentava per pagare “il fastidio“, come si soleva dire, l’avvocaticchio chiedeva tante mille lire per quanti erano i gradini per arrivare allo studio.
Per chi non ne conosceva il numero, l’avvocaticchio glieli mandava a contare, sia dal lato di sotto che da quello di sopra; gli stolti prendevano atto che erano uguali, da entrambi i lati. L’avvocaticchio, che ben sapeva, se la rideva con sadico godimento, da dietro la grande scrivania dalla quale spuntava solo il gran testone.
Alla taverna Trastanambunna trovarono l’oste che gli disse di aver già pronti gnommarieddi piccanti, fusilli e vino di Ciuddaria. Trovarono tutto di loro gradimento e si sedettero in attesa che il pranzo fosse servito. Si accorsero che mancava solo Nicolino. Stava fuori rannicchiato ad aspettare, dicendo di non avere fame per il gran dolore dello zio defunto. Gennarino, dopo aver insistito un po’, spazientito lo sollevò di peso e lo portò a sedere. Nicolino cominciò a mangiare pian piano e poi sempre con più voracità.
Fecero anche il brindisi alla memoria di Zio Felice e svuotarono tante caraffe. Il buio incombeva e si apprestarono a ripertire, ma Nicolino indugiava ad alzarsi. Sollecitato dai compagni, sbottò: “ah, speriamo domani in un’altra giornata come questa”! Tutti risero a crepapelle.
Dopo qualche tempo Nicolino, memore dei fusilli e del vino di Ciuddaria, ripassò per la taverna di Trastanambunna, ma la trovò chiusa per sempre. Vi si era consumato l’omicidio di Malannato, barbaramente accoltellato da tale Ndiliddu