Giovanni Gazzaneo
In questo breve racconto narro di un personaggio realmete vissuto a Francavilla, personaggio che i più anziani forse ricorderanno se non altro per averne sentito parlare dai loro genitori. A parte l’episodio finale del farmacista, il solo inventato, tutti gli altri sono tali e quali mi sono stati tramandati da mia madre e dai miei zii. Ho solo usato nomi di fantasia dei vari personaggi. G. Gazzaneo
Il suo compito, che era quello di guardia municipale, Francesco Lofiego, meglio conosciuto come Ciccillo “il rosso” per via del colore dei capelli e dei baffoni a manubrio, l’aveva preso sin dal primo giorno maledettamente sul serio.
Incorruttibile coi commercianti che non rispettavano le norme igieniche o gli orari, inesorabile con quanti sorprendeva a lordare il retro del municipio o dell’edificio scolastico andandovi ad espletare certi bisogni corporali, spietato con le donne che di primo mattino s’arrischiavano a vuotare i vasi da notte scaraventandone il contenuto dall’alto delle finestre… senza riguardo per nessuno (parenti o non parenti, compari o non compari), fece stare con due piedi in una scarpa per un buon quarto di secolo la comunità intera.
S’era fatte a suo tempo confezionare tre divise costategli un occhio della testa, come minimo l’equivalente di un anno di quegli stipendi miserrimi percepiti a singhiozzo dal comune: una per l’inverno, grigia, di flanella bella morbida, doppia e pesante che, indossata sopra due maglie di lana e un paio di mutandoni gli avrebbe fatto risparmiare pure il cappotto; un’altra, bianca, di cotone, come la portavano i vigili urbani di Roma veduti una volta ritratti sulla copertina della Domenica del Corriere, per l’estate; una terza, blu, l’alta uniforme, per la confezione della quale s’era trattato di un’occasione d’oro, in quanto al sarto era avanzata giusta una pezza di quella stoffa adoperata un paio d’anni addietro, allorché gli avevano ordinate le uniformi per i suonatori della banda municipale.
Per quanto riguardava i berretti se n’era procurato uno per ogni divisa naturalmente: il bianco e il grigio se li era fatti arrivare da un negozio specializzato di Taranto, l’ultimo, quello blu da abbinare all’alta uniforme, decise, per risparmiare, di farselo prestare di volta in volta dal suonatore di bombardino della banda municipale, un lontano cugino di sua moglie per l’esattezza, il quale dovette presto rassegnarsi ad andare alle processioni e ai funerali importanti a capo scoperto.
Infine aveva ordinato da Napoli una sciabola, una sciabola vera con elsa dorata, impugnatura d’osso, lama affilata come un rasoio e incisa con motivi artistici, fodero luccicante e sciarpa azzurra con due fiocchi ciondolanti per portarsela appresso nelle ispezioni. Avrebbe desiderato pure la pistola, ma quella il podestà non gliela volle comprare, né permise a lui di acquistarla a proprie spese come aveva fatto per le divise e per la sciabola.
Insomma, bardato e pavesato in quella maniera, con un paio di medaglie della guerra di Libia scovate chissà dove appuntate sul petto, Ciccillo il Rosso la sua bella figura la faceva e la faceva fare al proprio paese, specie quando i campagnuoli vi giungevano per la fiera e potevano ammirarlo a bocca aperta, onnipresente, marziale e impettito, in perenne perlustrazione nei vicoli, nella piazza del mercato o nella variante dove, puntualissimo come un orologio svizzero, si faceva trovare nelle ore di arrivo e partenza del postale (prima corsa alle cinque del mattino), onde poter seguire, tenendo a bada eventuali incoscienti curiosi, le pericolose e azzardate manovre del veicolo davanti all’ufficio delle regie poste.
Come avrebbe fatto la comunità ad andare avanti se non ci fosse stato lui, Ciccillo se lo chiedeva sovente, e ogni volta che si poneva la domanda gli s’accresceva a dismisura nel cervello il convincimento che la sua persona fosse non solo necessaria, ma indispensabile: nelle piccole come nelle grandi cose.
Non gliene scappava una, e i suoi rapporti erano estremamente precisi e circostanziati, come ad esempio quella volta in cui, dopo estenuanti appostamenti, sorprese una certa Angelina Lanza nell’atto di vuotare la lavatura degli intestini di maiale sul proprio terrazzino situato sul retro di casa, donde il liquame nauseabondo giungeva attraverso un foro di scolo direttamente sul selciato: “Scoperta oggi addì 30 novembre 1937, anno XV dell’era Fascista, alle ore quattordici e trenta sulla loggetta della propria abitazione sita in vicolo sottotenente Loperfido, numero 2, Angelina Lanza vedova Jacoviello, la quale in pieno giorno emetteva acqua putrida nella pubblica via dal buco di dietro”.
I paesani, solo nel vederlo arrivare, se la facevano addosso, perché con uno come lui c’era veramente poco da scherzare. E pur con la coscienza a posto, già scorgendolo in lontananza si infilavano in qualche portone o in un vicolo, oppure cambiavano lato della strada se proprio non avevano altre vie di scampo.
Ogni pretesto infatti era buono, per Ciccillo. Ad esempio si stampava nella testa come tante fotografie le facce di coloro che non s’erano presentati all’adunata del sabato o che non avevano partecipato a una celebrazione religiosa importante, e quando, anche dopo settimane, incontrava gli infingardi, faceva loro di quelle ramanzine!… là dove si trovavano, anche a passeggio sul corso in mezzo alla gente, mica aveva riguardi. Pubbliche scenate da far accapponare la pelle pure agli ammutoliti astanti.
Nemmeno il cinematografo nella piazza del municipio quelle due o tre volte l’anno si potevano godere in santa pace, i compaesani di Ciccillo. L’integerrimo vigile infatti s’installava accanto allo schermo e da quella postazione controllava che tutto procedesse nei preparativi con ordine e regolarità; specialmente nella disposizione delle sedie che gli spettatori si portavano da casa e che verificava venissero sistemate in riga perfetta in un senso e nell’altro, come nelle sale cinematografiche vere dove aveva avuto la fortuna di mettere piede una volta a Potenza, lui che aveva viaggiato.
E durante la proiezione, su e giù, avanti e indietro fra il pubblico, la mano sinistra sull’elsa della sciabola, la destra pronta a far partire scappellotti per far tacere grandi e piccini che disturbavano, o per svegliare zappatori morti di fatica dopo che s’erano rotta la schiena per quattordici ore nei campi e nelle vigne: “Dimmi un poco, zotico ignorante che non sei altro!”, faceva sobbalzare il malcapitato abbaiandogli in un orecchio. “Se domani uno, mettiamo un forestiero arrivato col postale da Chiaromonte o da Senise, ti chiede che cosa hai visto stasera al cinematografo, che cazzarola gli dici? Che t’è venuto il sonno? Bella figura, proprio una bella figura, ci fai!”. Quindi, allontanandosi e dondolando sfiduciato il capo: “E poi vi lamentate che vi chiamano cafoni!”
Con l’età peggiorò in maniera sensibile e preoccupante, gli si accrebbe la mania di grandezza e gli si aggiunse con buonamisura quella di persecuzione: credette a un certo punto che si ordissero trame oscure ai suoi danni in ogni casa e in ogni angolo di strada. Divenne allora più guardingo, intrattabile e cuore di pietra, al punto da spedire un giorno davanti al pretore la sua stessa consorte.
L’aveva sorpresa a strizzare i panni davanti alla porta di casa e, per far vedere a passanti e vicini che non sapeva cosa fossero i favoritismi, divaricò le gambe, tirò fuori il taccuino, bagnò la punta della matita copiativa con la lingua e chiese alla donna, dandole solennemente del voi, nome e cognome.
L’irrispettosa frase con la quale quest’ultima, mani sui fianchi, osò rispondergli tirando in ballo l’anima di sua madre fu da lui ritenuta motivo valido per denunciarla seduta stante: offesa grave a pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni.
Neppure i parenti, neppure il cugino che gli prestava il berretto, nemmeno il prete: nessuno riuscì a farlo ragionare; e così alla fine pagò, facendo i debiti ma soddisfatto, le spese di giudizio nonché l’ammenda cui la moglie venne condannata, mangiando pane, cipolla e fichi secchi per tre mesi abbondanti.
Poi giunse un brutto giorno in cui il farmacista, uno al quale era sempre piaciuto fare lo spiritoso, volle quanto mai inopportunamente spassarsela alle spalle di Ciccillo, sottovalutando certe possibili conseguenze.
E male gliene incolse.
Reso furente come una bestia da alcune similitudini che lo speziale, in vena di scherzi con un gruppo di nullafacenti che stazionavano davanti alla farmacia quella mattina, s’era permesso di fare tra la sua divisa di vigile urbano e i costumi indossati dai pagliacci del circo equestre, Ciccillo sguainò la sciabola e si mise ad inseguirlo; lungo il bancone prima, tra gli scaffali poi, nel retrobottega infine; e quando quello gli fu giunto a tiro, tra gli strilli dei presenti, ma ancor più della vittima e della moglie di quest’ultima, fece partire un terribile fendente col quale portò via al professionista per fortuna solamente la punta del naso.
Stavolta qualcuno si premurò di far venire da Chiaromonte i carabinieri, i quali al loro arrivo trovarono Ciccillo che sbraitava come un forsennato tenuto da ben quattro persone, mentre l’incauto farmacista se ne stava semisdraiato sopra una poltrona con la moglie che gli teneva premuto un pacco di garze inzuppate di sangue in mezzo al volto.
Lo condussero dapprima in caserma, poi in carcere, a Lagonegro. Infine, processato e riconosciuto infermo di mente, venne inviato al manicomio di Aversa per le cure del caso.
Ce lo tennero per un anno abbondante, fino a quando, giudicato non più pericoloso, fece ritorno a casa, dove venne messo a corrente di essere nel frattempo stato collocato a riposo per motivi di salute e, d’altronde, quasi raggiunti limiti d’età.
Le divise e le medaglie però Francesco Lofiego detto “Ciccillo il Rosso” le aveva ancora, e ogni tanto, elusa la sorveglianza della moglie, si addobbava nuovamente in arnese di vigile urbano. Allora usciva di casa e si metteva a fare quello che riteneva il proprio dovere, appostandosi, ispezionando, redarguendo e redigendo verbali su verbali in un quadernino a quadretti con tanto di carta carbone.
La circostanza poi che la moglie gli nascondesse le scarpe per impedirgli di uscire non sortì alcun effetto deterrente perché, anche con le sole calze o addirittura a piedi nudi lui in giro ci andava lo stesso, e in uniforme naturalmente.
Tali fatti generarono dapprincipio comprensibili ansie e turbamenti nella popolazione locale e ancor più nell’animo di ignari forestieri, ma in séguito, visto e considerato che a furia di legnate e di elettroschock in quel di Aversa il poveraccio era divenuto innocuo (la sciabola oltretutto gli era stata a suo tempo sequestrata) i compaesani e pure quelli delle campagne, un po’ mossi a compassione, un po’ divertiti, si risolsero a lasciarlo fare sino a quand’ebbe ottantanni passati.
Un ritratto divertente, quasi surreale su uno sfondo amaro. Personaggi del genere, erano per i nostri paesi fonte di non pochi problemi, creavano una sorta di timore e ira, eppure non venivano mai odiati ma solo “isolati” con un fare quasi compassionevole. Complimenti per questo racconto!.