Che si fa a Torino?

Romano Console
Romano Console

Una delle più frequenti domande me rivolte allorché, in occasione –purtroppo- sempre più rare, mi capita di incontrare a Francavilla i miei cari e vecchi amici è questa: “E allora, Romano, che si fa Torino?”

Sempre, la mia risposta, ritualmente superficiale, senza alcuna attenzione ai numerosi e vari aspetti di profonda riflessione aperti a me stesso ed ai miei interlocutori da quella domanda, era la stessa. Mi limitavo cioè ad esprimere quello che per me, nella mia vita, si era verificato nel corso degli anni e l’espressione usata: “la solita vita”, piuttosto che indicare la mia percezione di quando di diverso fosse davvero accaduto in Torino, esprimeva esclusivamente la realtà del mio vissuto, di un uomo che si poneva a misura del tempo trascorso solo in funzione del proprio divenire, dalla gioventù alla maturità ed infine alla ormai incombente vecchiaia.

Ebbene, ad una risposta tanto insignificante ed inadeguata, buttata lì solo per non turbare con discorsi seriosi lo spirito di una goliardica rimpatriata, sento ora il bisogno di porre rimedio descrivendo ai miei interlocutori le mutazioni da me percepite e, in parte personalmente vissute, nel corso degli anni trascorsi, dal mio arrivo a Torino sino ai nostri giorni.

In questo modo la domanda avrebbe avuto senso e la risposta, senza alcuna pretesa di fornire un’analisi storica o sociologica, avrebbe aiutato a comprendere quale profonda mutazione si era verificata nella realtà di Torino negli ultimi quarantacinque anni, quanto lontano dalla “solita vitafosse in realtà il percorso che la città aveva compiuto dalla fine degli anni 60 sino ad oggi.

Partirei proprio dalla mia esperienza che, anche per l’attività professionale svolta, ha usufruito di un posto di osservazione privilegiato.

La Torino in cui mi sono imbattuto, dopo aver frequentato Milano per i miei studi universitari, era una città chiusa su se stessa, laboriosa, provinciale ed aristocratica, operaia eppure ricca di fervore culturale che trovava nella Editrice Einaudi E nel giornale cittadino “la Stampa” alti momenti di espressione.

Torino Piazza San Carlo
Torino Piazza San Carlo

Grigia per il fumo delle fabbriche e dei camini alimentati a carbone; ma grigia anche per la mancanza di serie prospettive in alternativa al “pensiero” FIAT. Persino la vita sindacale, che proprio a Torino aveva trovato la sua origine ed il suo maggior sviluppo, sembrava omologata ad una logica di appagata assuefazione alla fabbrica ed alle sue regole.

Non a caso, la prima vicenda di cui professionalmente mi sono occupato e stata proprio quella del cosiddetto spionaggio in Fiat.

La Direzione della fabbrica, sempre ispirata al rigore del “Presidente di Ferro”, Vittorio Valletta, aveva reagito alle istanze portate avanti dai sindacati, prima ancora della approvazione dello Statuto dei Lavoratori, organizzando, con la complicità di funzionari della Questura e di alti Ufficiali dei Carabinieri adeguatamente ricompensati, la “schedatura” di tutti i dipendenti.

Sicché, ogni lavoratore che entrava a far parte della “grande famiglia” era attentamente catalogato per conoscerne l’eventuale iscrizione ad un partito politico, la sua partecipazione a manifestazioni sindacali, il tenore di vita suo e dei familiari e persino il modo in cui impiegava il tempo libero.

Lo scandalo seguito alla scoperta degli archivi FIAT da cui risultava che, dietro lauti compensi, Ufficiali dei Carabinieri e Funzionari della Questura avevano raccolto questi dati ed il clamore suscitato dal processo penale aperto da un allora giovanissimo Pretore, dott. Raffaele Guariniello, che svolse le prime indagini, accentuò il clima di tensione che da tempo, agli inizi degli anni 70, incominciava a diffondersi nelle fabbriche.

Le manifestazioni di protesta e le contestazioni violente che agitavano sempre più spesso le vie della città costituirono infatti il primo germe da cui più tardi sarebbe nato un estremismo intollerante e criminale che trovò nelle Brigate Rosse ed in altre bande armate uno sbocco imprevedibile condannato dagli stessi sindacati e dai partiti di sinistra.

Agli anni del terrorismo fece poi seguito una “normalizzazione”, la cui forma più eclatante fu la cosiddetta “marcia dei quarantamila” organizzata questa volta dai dipendenti del ceto impiegatizio, dai quadri che sfilarono, in un silenzio minaccioso per manifestare contro i blocchi dei cancelli degli stabilimenti Fiat di Torino e Rivalta ed il protrarsi di molte giornate di sciopero.

Torino Piazza Castello
Torino Piazza Castello

Intanto la crisi della fabbrica torinese, già iniziata nei primi anni 80, si accentuava sia per una progressiva delocalizzazione sia attraverso il venir meno di un reale interesse di politica industriale da parte dei dirigenti: si riteneva ormai più conveniente impegnare nella finanza e nelle banche le maggiori risorse, trascurando il settore automobilistico che ad esse avevano dato origine.

Seguirono licenziamenti, riduzione di organico e chiusura di molte attività dell’indotto in un quadro di ridimensionamento di tutta l’attività prima destinata alla fabbrica di automobili. Contestualmente a questo fenomeno, tuttavia cessava anche il monopolio socio culturale con cui la Fiat aveva condizionato la vita dell’intera città e forse del paese. A differenza di quanto avvenuto in altre realtà, insieme con l’attenuarsi della pressione politica dell’impresa e la dipendenza da essa della città, a Torino si andavano liberando nuove energie, si incominciava a percepire la necessità di rivolgere maggiore attenzione verso intraprese, prima represse da un “pensiero unico” che nella Fiat vedeva il miraggio di ogni possibile progresso. E così, accanto ad iniziative pubbliche di riqualificazione del tessuto urbano, di più attenta lettura di nuovi e diversi modelli di sviluppo, di una progressiva osmosi tra le varie culture che la forte immigrazione degli anni ’60 e ’70 avevano realizzato, si perveniva ad una mutazione veramente epocale della città che io avevo conosciuto all’epoca del mio arrivo. Anche nel linguaggio, nel modo di vivere, nel sistema di accoglienza, non più subordinato al ruolo da assumere in fabbrica, Torino dimostrava di avere superato la crisi industriale, rinnovandosi radicalmente.

La città riscopriva una vocazione turistica valorizzando patrimoni di arte e di paesaggi la cui bellezza era stata a lungo relegata ed oscurata dal monotono ritmo dei turni di lavoro della fabbrica e del fumo dei camini dei capannoni che circondavano le periferia della città.

Poco per volta, insomma, come efficacemente annotato da Giuseppe Colicchia “Torino, nel corso degli ultimi anni ha davvero cambiato pelle ed ha cominciato a scrollarsi di dosso gli stereotipi che un tempo saltavano fuori solo a nominarla: la città grigia industriale, il laboratorio, la culla dell’azionismo, capace di coniugare la cultura operaia con il catalogo delle editrice Einaudi” (che fin dal primo dopoguerra aveva portato in Italia i migliori frutti della cultura europea ed americana).

Più di ogni altra città italiana, Torino ha saputo rinnovarsi facendo un triplo salto mortale carpiato, tra un’Olimpiade e una riqualificazione urbana soprattutto di quelle periferie fumose o di un centro storico abbandonato al degrado, si è magicamente trasformata nella città della “movida”, meta di un sempre maggiore numero di turisti e di mutato spirito di accoglienza e di integrazione.

Ecco, forte di queste riflessioni, oggi così vorrei rispondere a chi mi rivolge la domanda: che si fa a Torino.

Manifestando con la mia risposta tutta la gioia di aver vissuto la realtà di una città radicalmente trasformata per divenire più bella e sempre più in grado di attenuare la nostalgia per il paese da cui sono partito da ragazzo e che continuo ad avere nel cuore.

 

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