don Enzo Appella
Intervento di don Enzo Appella alla presentazione del romanzo di Donato Di Capua, La croce dentro, Ed. Kimerik, Patti 2015. (Sala Convegni – Francavilla sul Sinni, 26 Novembre 2016)
Ringrazio con piacere l’associazione CAFFE che ha voluto invitare anche me in questo contesto interessante per la vivacità culturale di un paese come il nostro, l’amato Francavilla sul Sinni. Ogni volta che si presenta un libro in pubblico si lasciano sbocciare gemme che promettono una primavera a beneficio di tutti e si rinnova il miracolo del bene comune. In altre parole, il crogiuolo intimo di uno diventa il nutrimento di molti. E noi tutti, sebbene a vari titoli, lavoriamo perché questo non venga mai perso di vista dall’orizzonte del nostro agire, nonostante la scoraggiante mediocritas che impèra pure nei nostri ambienti.
Ringrazio perché mi è stato chiesto di intervenire non in qualità di rappresentante della nostra benemerita istituzione parrocchiale. Sono altri i deputati a tale funzione, io non ne avrei il titolo. In realtà, l’invito mi è stato rivolto in qualità di docente di teologia nella Pontificia Facoltà Teologica di Posillipo, a Napoli, retta dai padri gesuiti. Dunque, uno che dell’impegno culturale in vista della crescita della consapevolezza altrui ha fatto modestamente la sua ragione di vita. Naturalmente non lo dico con il piglio dell’autoreferenzialità mielosa e instupidita. Chi bene mi conosce sa quanto io aborra anche la minima forma di autoesaltazione. Invece, lo dico perché vorrei partire proprio da questo dato per affermare semplicemente un paio di cose in cui racchiudo l’emozione e la provocazione che mi ha suscitato la lettura del bel romanzo di Donato Di Capua.
L’avvincente costruzione narrativa è tutta imbastita attorno alla vicenda che potremmo tranquillamente incuneare nel genere letterario “con-versione”. Il protagonista, un ricco e senza scrupoli uomo di affari della Milano che conta, parte da uno stato di vita e si trova, detto con una potente immagine evocativa di stampo biblico, caduto da cavallo in una diversa situazione. Da ricco non solamente di beni di lusso ma anche di gravissimo prepotente orgoglio, David Dickman Coiffman, incapace di accorgersi di alcuno sulla sua traiettoria se non del suo piacere da soddisfare a ogni pie’ sospinto e senza neanche l’ombra di un sussulto cordiale che provi pietà per le disgrazie altrui, un perfetto ruotatore su se stesso e, quindi, malato di narcisismo, ebbene costui si trova ad un certo punto nelle favelas di Bogotà nella Colombia di violenti narcotrafficanti a servire i poveri mentre indossa il convincimento del poverello di Assisi e il saio dei frati francescani. Una storia di conversione alla povertà evangelica, quindi.
Lungo questo canovaccio è stato prodotto da tempi immemorabili, lo sappiamo, tutto un mondo nella letteratura, nella pittura, nel cinema, a partire senz’altro da realissime storie di gente che da benestante qual era ha rinunciato a tutto per aiutare il prossimo.
Una rinuncia provocata dall’ascolto e dalla giusta comprensione del Vangelo di Gesù. Una vera e propria vocazione. Ma mi chiedo se l’ascolto, vocazione altamente umana, non sia un’importante forma di pro-vocazione. E qui sta il primo punto della mia riflessione. Forse proprio questa dinamica, che fa da struttura portante del romanzo La croce dentro, ha fatto pensare agli organizzatori di invitare anche il prete. Eventualmente è stato così, io mi permetto di richiamare a coloro che leggeranno il libro o l’hanno già letto a non chiudere nel solito, retorico clichè la trama del racconto. In fondo essa non indugia in un moralismo pietistico per cui certe cose vanno dette con quel linguaggio e rappresentate con quegli stereotipi e, pertanto, lontano da noi comuni mortali, che non siamo businessman e che non abbiamo milioni accumulati magari con una ingiusta gestione degli affari o quant’altro. Cioè, la storia riguarderebbe David Coiffman, ma non noi. È lui che si converte e si fa frate reputando spazzatura i beni cumulati. È lui che, tutto sommato, deve convertirsi. La sua vicenda sarebbe rappresentativa solo di una tipologia di persone. E invece no! Qui non abbiamo affatto la messa in scena di una bonitas “pretesca” o “fratesca”, insomma “ecclesiasticume” da quattro soldi, moralismo snervante e perditempo. In questo modo banalizzeremmo il lavoro di Di Capua e non gli daremmo il meritato risalto.
Dicevo poc’anzi che il genere letterario del libro è chiaro. Quel che però non va equivocato è che non è il genere letterario che partorisce questa storia, semmai è il contrario. È dal banco della dura quotidianità che vien fuori la forma atta a raccontare la vicenda. Dunque, è qualcosa che riguarda non solo il riccone di turno spietato, ma ciascuno di noi che rischia ogni giorno di imbastire una visione alterata di sé, del mondo, del futuro, e che non è capace più di fecondare il tempo che si vive con dosi massicce di humanum iniettate nell’economia, nella finanza, nella politica, nelle istituzioni, insomma nelle relazioni che fanno il tessuto di una società che si possa definire civile, cioè di civiltà. Siamo tutti a rischio di incapacità di alterità, ovvero di accorgerci del tu che ci sta di fronte.
A me pare che la costruzione del Di Capua tende a far recuperare questa verità di fondo: la felicità di una umanità piena e soddisfatta si trova nelle cose semplici e nella semplificazione della realtà, non nella sua mistificazione, quando ad essere allevati, più che i desideri, sono le cupidigie per cui un’esistenza degna di questo nome sarebbe solo quella di un miliardario o milionario che dir si voglia. Noi normalmente siamo tutti vittime della complicazione della vita e anche di terribili cupidigie che ci disumanizzano. L’evidenza è sotto gli occhi di tutti. Il romanzo fa presa sul lettore, chiunque esso sia, ricco o nullatenente, colto o poco istruito, credente o agnostico, perché l’autore è stato bravo a far scendere nella tenzone l’umiltà di mendicare l’humanum e, dirimpetto, la libertà di donarlo a piene mani. Si tratta di uno scambio direi divino, che fa felici e ottimisti, oltre che ottimali, i giorni che stiamo vivendo.
Perciò, mi permetto di dire che non ha del prodigioso il racconto del nostro autore, tantomeno dello spettacolare effimero, ma piuttosto la forza permanente dell’appello accorato a cambiare la direzione del nostro ordinario procedere. La sua performance va in questa meravigliosa direzione che personalmente approvo in pieno. È bastato un piccolo incidente durante il footing serale, perché al protagonista David si squarciasse la visione dell’ignoto o, meglio, del rimosso. Gli occhi di Patrizia e l’amore per lei lo porteranno di conseguenza a ritrovare finalmente il proprio humanum nello sguardo silente ma possente del piccolo Diego, un orfano colombiano reso miserrimo da un’economia di mercato in cui noi occidentali siamo immersi fino ai capelli e di cui siamo i diretti responsabili. Strutture di peccato costruite non solo dai Coiffman di turno con i loro diabolici traffici di danaro, ma che impongono una seria riflessione anche a noi che viviamo in periferia e alla spicciolata. Possiamo cambiare questo crudele sistema a partire dall’ordinario, dal quotidiano, come s’è reso conto il protagonista constatando di persona e diventando un modello per tutti noi, per ogni lettore. La trama del romanzo ci aiuta a non offendere più la nostra anima e a recuperarne il candore.
Ed ecco il secondo e ultimo punto del mio pensiero. Dobbiamo imparare dal protagonista David un’agire diverso, con una nitida finalità di bene comune. Oggi è un concetto gravemente minacciato da interessi troppo personali, personalizzati, privati e sostanzialmente illeciti. Le donazioni che il personaggio principale farà ai poveri alla fine del romanzo non suonano come pietosa elemosina nell’accezione popolare, regalie di superfluo tanto per tacitare la coscienza sporca, ma come convinta restituzione del maltolto. La parola che illumina a tutto tondo il personaggio di David Coiffman è proprio restituzione, come successe a Zaccheo della parabola gesuana. L’agire a cui la vicenda raccontata invita il lettore non è da intendersi come un trasformare il mondo mediante la praxis o la poiesis, bensì come il tornare a porsi di fronte all’altro facendo di lui il fine di se stesso. Dunque si tratta di un agire giusto. E nell’agire giusto si riassume l’essenza della religione biblica che fa, se non sbaglio, da background al nostro romanzo.
Anzi a differenza delle religioni in genere, la cui funzione secondo la consueta etimologia di religàre, cioè “creare legami”, è di istituire e garantire l’unità e la pace del corpo sociale, la religione biblica ne è la messa in crisi costringendo ad aprire gli occhi su chi è escluso dal corpo sociale o nel corpo sociale è marginale o addirittura marginato. La religione biblica esige la giustizia intesa come trasfigurazione, vale a dire come in-versione e con-versione della propria sofferenza in cura della sofferenza altrui e dell’angoscia per la propria morte in preoccupazione per l’angoscia per la morte altrui.
Concludendo, credo davvero che il racconto di Donato Di Capua faccia il paio con un principio basico della letteratura biblica: dichiarare la priorità dell’etico sul religioso, giacché non è il religioso che realizza l’etico, ma è la realizzazione e il compimento dell’etico che realizza il religioso. Si vedano, dunque, le gemme delle sue pagine che invitano a una primavera ormai non lontana. Grazie e auguri.