“La tenerezza” di Gianni Amelio

Armando Lostaglio

E’ la luce una delle componenti essenziali di questo film, terribile e forse necessario, in tempi nei quali non ci si guarda troppo nel profondo e nei rapporti familiari; è La tenerezza, diretto da Gianni Amelio, sua quattordicesima opera. Che pure lascia interdetti per talune forzature di sceneggiatura, tratta dal romanzo La tentazione di essere felici di Lorenzo Marone, autore napoletano. Ed è la luce di Napoli (ben ritratta da un sempre ispirato Luca Bigazzi) a contornare le vicende del film di Amelio, una Napoli (finalmente, di questi tempi) fuori dai luoghi comuni di motorini guidati senza casco e di gomorre. E’ tuttavia una Napoli dipinta ed affranta negli occhi dolenti del protagonista, un malandato avvocato in quiescenza, Renato Carpentieri, eccellente spina dorsale dell’intera narrazione, già diretto da Amelio in Porte aperte (del 1990, tratto da Sciascia). Si chiama Lorenzo, “famigerato” (come si definisce) avvocato civilista, con una vita trascorsa nelle aule del tribunale, per assecondandone la volontà truffaldina dei clienti. Moglie e figli abbandonati senza scrupoli per vivere con una donna ben più giovane di lui, che pure lascerà per fare ritorno a casa. Ormai vedovo e solo, lontano caratterialmente dai due figli Elena (Giovanna Mezzogiorno, che pure lo insegue, mantenendo identica espressione e tonalità vocali) e Saverio (Arturo Muselli) i quali non avevano perdonato il dolore per la sua assenza causato alla loro madre.

Incomberà su Lorenzo una giovane coppia con due bambini, in un appartamento adiacente a quello di Lorenzo: Fabio e Michela (Elio Germano e Micaela Ramazzotti), che provengono dal nord (lui fa l’ingegnere navale). I bambini, compreso il nipotino di Lorenzo (figlio di Elena, di una relazione sospesa) riescono a condividere una gioia mancata al vecchio avvocato, ora meno brusco rispetto al passato. Si “forma” una famiglia presunta, che vagamente rimanda a quella degli appartamenti di Gruppo di famiglia in un interno del sublime Visconti. Anche in Amelio vige una piega tragica, forse meno prevedibile. E’ la generazione di mezzo quella che appare sconfitta in questo tempo senza più giochi, senza più tenerezza (appunto) quella stessa che solo nel finale avrà un suo barlume riconciliante. Amelio, nei suoi film intellettualmente incisivo, ci racconta qui una storia non insulsa, ma che presenta alcuni caratteri umani non del tutto profilati. Ed è qui la sottile carenza della sceneggiatura, forzata e non troppo attenta a definire (per esempio) il gesto dell’ingegnere, che si diverte coi giochi mancati nell’infanzia, sottraendosi forse a quelli dei suoi bambini. Pure la Ramazzotti non si scrolla, seppur da madre, quel suo ruolo vagamente superficiale, alimentando dubbi sulla complementarietà di questa coppia, certo fragile e spaesata. In nessuno si manifesta una forza d’animo necessaria per ammettere il proprio bisogno di tenerezza. Restano personaggi narrativamente promettenti, ma non altrettanto scrutati: depressione latente e contraddizioni di comportamento. Rimane la tragedia incombente in questo tempo nel quale occorre saper ricominciare: guardare indietro da dove si è partiti, secondo un citato verso arabo. E perché (secondo Pavese) l’unica gioia al mondo è cominciare. E’ bello vivere perché vivere è cominciare, ad ogni istante.

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