don Enzo Appella
Comincio, con questa riflessione, una serie di commenti per la Settimana Santa che, quest’anno, com’è a tutti dolorosamente noto, non potremo vivere in modo “normale”. Normale no! E allora? “Speciale”? Sì, proprio così, speciale! Tocca a me e a te, a tutti noi, attivarci perché lo sia. Un modo speciale di vivere la Settimana più speciale dell’anno, anzi di tutta la storia della salvezza. Per favore, non s’alzi come un polverone la pesantezza depressiva ad abitare le nostre case, le nostre membra, le nostre teste, persino le nostre preghiere; non s’alzi ad affrontare il problema che è sorto così repentino, a tradimento, che tradisce in modo evidente la nostra incapacità di difenderci. Non lo risolverebbe affatto, ma lo ammanterebbe di nerastra fuliggine, consegnandoci per sempre all’angoscia.
Tutti ci stiamo sforzando di rendere un momento così disgraziatamente contrario a noi, al nostro modo di vivere, alla nostra civiltà, in un “tempo favorevole” (il greco del Nuovo Testamento avrebbe detto kairós al posto dell’orribile chrónos) per la nostra umanizzazione, l’umanizzazione dei nostri volti, delle nostre mani e dei nostri gesti; l’umanizzazione dei pensieri che spuntano in testa come prato e delle parole che, a mo’ di folate ventose, andiamo a pronunciare di conseguenza; insomma l’umanizzazione del nostro “cuore”. Vi avviso che il cuore, nella lingua della Bibbia (leb), non è propriamente la sede dei sentimenti, come generalmente si crede. Questi, lo sappiamo per esperienza, sono fluttuanti e, qualche volta, non del tutto affidabili. Ci sono e, quando credi di averli, non ci sono più! Infatti, gli antichi dicevano che di buoni propositi è lastricata la via maestra che porta all’Inferno! Il cuore, secondo la cultura biblica, è piuttosto la sede della valutazione e della decisione, è il luogo dove si esprime una scelta morale non più rinviabile. Abbiamo urgenza di scendere al livello cordiale e, complice la situazione di isolamento che stiamo vivendo e che dovrebbe favorire la calma e la riflessione, mettere mano come un artigiano ben perito e aggiustare le nostre decisioni su molte cose, le nostre valutazioni su così tanti aspetti della nostra quotidianità: troppi errori abbiamo accumulato! Riconosciamolo pure. Il malizioso meccanismo s’è rotto. Adesso, tornando al nostro cuore, possiamo restituire primato a valori che, nel frattempo, abbiamo tutti colpevolmente trascurato e, forse, addirittura bandito dal nostro abbecedario, arrecandoci un male di cui ora constatiamo la pericolosità. Eravamo fino a ieri così spavaldi, sicuri dei nostri averi, delle nostre capacità organizzative per tirare a campare. Oggi facciamo i conti, in un battibaleno, con la nostra ricomparsa consapevolezza di debolezza, di fragilità, con la nostra coscienza di inconsistenza dinanzi all’invisibile. Qualche volta al solo pensiero ci viene da traballare. Cosa sono io o tu difronte alla maestosità della storia, davanti all’ingente moltitudine di uomini e donne che, succedendosi di generazione in generazione, hanno ricamato nel bene e nel male la trama dell’esperienza umana fino a oggi? Cosa, difronte all’immensità del cielo, della terra, delle profondità marine? Niente! Pulvis, cinis et nihil, così si fece scrivere un uomo ricchissimo e molto potente del rinascimento romano sulla lastra della sua tomba collocata nel pavimento di una chiesa in modo che tutti potessero calpestarlo. Quanta superbia abbiamo coltivato, come quando si alleva un serpente in seno reputandolo, per questo, nostro alleato. Adesso ch’egli si rivolta contro di noi e ci mostra feroce il dente avvelenato, avvertiamo l’effetto doloroso del suo morso sia fisicamente che spiritualmente. Come il racconto dei serpenti che vennero a mordere gli israeliti mormoranti contro Dio nel deserto della traversata verso la terra promessa. Lo racconta una celeberrima pagina del libro di Numeri al capitolo 21.

Dio li salvò intervenendo tramite Mosè a cui chiese di fabbricare un serpente di metallo e innalzarlo su un’asta perché, coloro che erano moribondi a causa del veleno inoculato dai serpenti, lo guardassero e guarissero. Più di ieri, noi abbiamo bisogno adesso dell’intervento misericordioso di Dio. Da soli non riusciamo, esprimeremmo solo la caparbietà del nostro orgoglio che istupidisce anche le migliori intenzioni. La Domenica delle Palme ci è cara, è cara alla nostra memoria, quando da bambini, mutati con il vestitino della festa, correvamo a casa dei nonni e degli zii col ramoscello appena benedetto dal prete speranzosi del dono che ci avrebbero fatto, pochi spiccioli ma tanto preziosi ai nostri occhi. Un tripudio di fronde argentee d’ulivo potato nell’orto e di profumate frasche di alloro staccate nel giardino riparato dal muro diroccato del vicino, e allegramente agitate appena l’aspersorio d’acqua santa s’inalberava, come il serpente sull’asta, nella mano roteante del parroco. Tutti si faceva a gara per assicurarci il fresco schizzo che avrebbe santificato il proposito di pace che ci germinava in petto e sulla bocca. Era un giorno di festa! In Chiesa, sebbene collegati con qualche strumento telematico, ascolteremo il racconto della Passione di Gesù secondo la versione del primo Vangelo, quello di Matteo, che ci sta accompagnando durante l’anno liturgico in corso. Lo ascolteremo mentre i lettori lo drammatizzeranno per comunicarcene meglio l’intensità. Ed è vero, perché ancora adesso dopo duemila anni quella vicenda, abbrutita dalla cattiveria umana a più livelli ma anche splendente di così pudica innocenza e di tanti gesti di umanità riscattata, ci prende, ci coinvolge, ci travolge forse fino alle lacrime. E non sarebbe sbagliato, non sarebbe fuori luogo poter piangere sulle nostre colpe e cantare senza neanche farci sentire: “Sono stati i miei peccati, Gesù mio perdon, pietà!”. Compunctio cordis, la chiamavano i Padri della Chiesa! La grazia divina ci conceda di sentire una trafittura nella intorpidita coscienza per renderci conto del male commesso e chiederne sinceramente perdono.
Nessuno di noi è senza peccati, nessuno è immune dalla colpa. Cominciamo una settimana, quella santa, per passare al vaglio il fondale intorbidito della nostra esistenza e fare pulizia. Tante cose si possono dire sul lungo racconto della Passione di Gesù e della sua morte in Croce. C’è, però, un particolare su cui vi invito a fermarvi. Dopo che Gesù è stato prelevato nell’orto del Getsemani dal battaglione capeggiato da Giuda Iscariota e giudicato dal Sinedrio nella notte, all’indomani viene inviato a Ponzio Pilato. Finirà che il romano se ne laverà le mani e ordinerà di fustigarlo, dopo aver permesso alla turba di scegliere Barabba l’assassino. Nella versione di Matteo si accentua di più l’espressione “Ecco il vostro Re!”, del tutto ironica e irriverente. Nel vangelo di Giovanni, invece, che ascolteremo Venerdì Santo, si aggiunge a questo punto un particolare splendido. Pilato, dopo che Gesù è stato flagellato e rivestito di manto porpora, con la corona di spine, sanguinante e sfigurato è presentato alla folla. Pilato dirà in quella occasione: Ecce homo! Ecco l’uomo! Com’è possibile riconoscere in quella maschera di sofferenza, in quella faccia imbrattata di sputi, in quel volto percosso da inaudita violenza, nientemeno che sembianze d’uomo? Non si vede altro che lividi e tumefazioni, sangue coagulato e strappi vividi. Se poi in quell’uomo si pretende di scorgere addirittura Dio, la faccenda s’intrica ancor di più. Eppure Gesù è il vero Uomo, quello a cui bisogna guardare in questo tempo, in questo nostro tempo ammorbato e impestato di virus, senza aver paura della smorfia di dolore che noi gli abbiamo procurato. Vedere l’uomo nel volto sereno di un nostro parente, di un amico, di qualcuno che è ben vestito, ben fornito, presentabile e quant’altro non è poi così difficile. E invece l’uomo vero, quello che ci manca, quello che dobbiamo imitare, sta nell’Ecce Homo che la liturgia di oggi ci mette davanti, dichiarandolo Dio. Dobbiamo alzare a lui lo sguardo, come al serpente sollevato nel deserto, per guarire dal morbo inoculato dai serpenti velenosi che ci circondano e ci inabitano Ci sembrava un’operazione di poco conto, adatta a gente troppo semplice e quindi ingenua, ma non a noi che ci siamo reputati per troppo tempo così intelligenti e ora, nostro malgrado, vediamo in quale punto basso siamo finiti.

Avere il coraggio di trovare l’uomo lì dove nessuno lo cercherebbe mai, nella faccia sfigurata del Crocifisso, è un gran traguardo, l’unico vero traguardo che segna la vittoria. Si racconta che Diogene di Sinòpe diede una risposta sbalorditiva a chi gli chiedeva cosa ci facesse con la lanterna accesa in pieno giorno nel mercato cittadino. Solo un cretino agisce così, pensavano i suoi concittadini e, per questo, lo deridevano. E lui rispose: Quaero hominem, cioè “cerco l’uomo!”. “Cercare l’uomo” è senz’altro un’operazione sensazionale proprio perché appare, almeno di primo acchito, stravagante. Cosa vuol dire “cercare l’uomo”? E poi, dove bisogna cercarlo? Come? Perché? In questi giorni di isolamento ci stiamo accorgendo quanto sia importante la relazione, quel sublime legame che ci annoda gli uni agli altri e ci fa umani, gente che si appartiene, che non può vivere senza l’altro, che sia bianco o nero o mulatto, che sia ricco o povero, malato o sano, parente o straniero, sporco o pulito, ecc. Ecco qual è l’umano da riscoprire in questa occasione, di gran fretta, con urgenza. Non sarà venuto invano il corona-virus! La Domenica delle Palme ci racconta tutto questo e non è poco, anzi è il tesoro che possiamo riscoprire a portata di mano col quale comprare il riscatto della nostra salute. Prendiamo sul serio l’invito di Pilato: “Ecco l’uomo!”, lui che probabilmente pronunciò quelle parole con un tono cinico, forse ironico; prendiamole sul serio le sue parole e guardiamo Gesù in passione: noi tutti dalle sue piaghe siamo stati guariti!