Armando Lostaglio
La grande documentarista Cecilia Mangini (1927-2021) dichiarò, con lungimiranza e senso della attualità, a proposito del suo film All’Armi siam fascisti! del 1962: All’armi può essere definita una denuncia della politica culturale di quegli anni, che era negazione soft della libertà di espressione e dell’autonomia della ricerca: una politica culturale che a breve avrebbe contato sull’ascesa dei due pilastri del consenso in una società di massa, il consumismo e la televisione, veri ammortizzatori sociali ben più efficaci per esempio della cassa integrazione e dell’intangibilità del posto di lavoro. […]
All’Armi siam fascisti! non solo ha raccontato agli italiani la loro storia, ma gli ha anche detto che chi ignora la propria storia è preda facile, inconsapevole e contenta di quella manipolazione che il potere intende perseguire con la sua politica culturale. Se la storia non appartiene solo all’esigua minoranza degli addetti ai lavori ma appartiene a tutti, operazioni come la creazione del consenso acritico di massa diventano difficili e «resistibili», tanto per usare una parola cara a Brecht.
Protagonista del Cinema del reale, Cecilia Mangini, ci ha lasciati lo scorso anno. E’ stata la prima donna documentarista in Italia del dopoguerra. Era nata a Mola di Bari nel luglio del 1927, ma presto si trasferì con la famiglia a Firenze. Con la Puglia aveva sempre mantenuto dall’infanzia un rapporto di affetto, anche legato alle sue curiosità di natura sociale ed etnica: esemplare il suo lavoro sulla Grecìa salentina dal titolo “Stendalì – Suonano ancora” datato 1960.
Fu il cinema di Jean Renoir con “La grande illusione” a folgorarla e ad avvicinarla al cinema; a Firenze frequenterà i cineclub o CineGuf e quindi conosce il grande cinema internazionale, conquistata sempre più dal Neorealismo. L’esordio da documentarista avverrà grazie all’illuminato produttore Fulvio Lucisano. Il contatto con la poetica di Pier Paolo Pasolini rappresenta la svolta, imponendosi all’attenzione del mondo della celluloide. Eppure a Venezia, nonostante la forza e l’intensità delle opere, il documentario non aveva ospitalità.