Marilena Lovoi

Fin dalle sue antiche origini pagane, l’avvento del carnevale ha portato con sé un momento di festa e socializzazione. Con il passare dei secoli ha rappresentato, insieme alle altre festività, uno dei momenti rinsaldanti lo spirito della comunità tradizionale. Come tutte le altre ricorrenze, anche carnevale, è stato funzionale alla riproduzione del tempo ciclico, nelle epoche in cui la modernità del tempo lineare sembrava ancora lontana.
Un tempo scandito dai ritmi produttivi della civiltà contadina, in cui le vite, regolate dalla natura e dalla religione, inevitabilmente necessitavano momenti riservati al divertimento. Il carnevale ha rappresentato, e in qualche forma rappresenta ancora, un’occasione unica per sovvertire l’ordinario e rompere con la monotonia del quotidiano, ancor di più che nelle altre ricorrenze.
Contro la rigida divisione sociale della tradizione, anche il povero per un giorno poteva fingere di essere signore o sentirsi libero di schernire quello vero, senza timore. Ribaltando l’ordine naturale delle cose e dell’identità, l’uomo poteva diventare donna e viceversa, esercitando un potere sulla natura e perdendo il senso di ogni moralità.
A carnevale, ancora oggi, la maschera fa da protagonista, in un’occasione in cui l’uomo può spogliarsi di quell’identità vincolante che è il volto. Ma la perdita dell’identità soggettiva, è compensata con l’acquisizione di quella collettiva. Basti pensare alle famose maschere simbolo delle città italiane, o alla riscoperta dei vestiti tradizionali delle nostre comunità rurali.
Una festa all’insegna della risata, per farsi beffa del potente. Un piccolo momento di ribellione autorizzata, in attimi concessi dal padrone, che servivano, però, a ribadire ancora il suo potere. Un potere ceduto solo apparentemente per la circoscritta evenienza, in cui si considerava utile concedere svago e libertà dalle fatiche quotidiane.
Uno svago fatto di abbondanza ed eccessi, convivialità e condivisione. Tutto ciò anche a tavola. Il carnevale è stato, nei secoli, sinonimo di banchetti, buon cibo e vino. Un ultimo momento di piacere prima della rinuncia quaresimale, da cui Carnem – levare, togliere la carne. Quella carne che abbonda in questo periodo dell’anno che segue l’uccisione del maiale, e che veniva messa in comune, per banchetti e festeggiamenti.
A racchiudere i principali aspetti della tradizione, nella Valle del Noce, è anche il carnevale nemolese. Un carnevale in grande, che nel corso degli anni è stato ricamato attorno all’importante Sagra della Polenta. Circa tremila le presenze ogni anno nel piccolo borgo di Nemoli, che, nel martedì grasso si riempie di profumi e colori, di musica e contagiosa allegria. Prima di togliere la carne, a Nemoli la si fa sposare amabilmente con la polenta.
Un procedimento che segue una tradizione plurisecolare, che risale al 1600, epoca in cui, secondo alcune interpretazioni, i mastri calderai girovaghi importarono la pietanza nel borgo lucano. Una ricetta antica e grandi numeri per la sagra.
Quattro quintali di granturco quarantino, detto trecchinieddr’, mescolato e reso compatto dall’operato dei mastri polentari, che dopo aver tagliato la polenta con uno spago, la fanno incontrare con salsiccia e pancetta, precedentemente cucinate con il pepe rosso. Il tutto amabilmente accompagnato da un bicchiere di vino rosso locale, che completa ad arte il momento di degustazione.
Come da consuetudine non mancano le maschere, i gruppi e i carri allegorici. Per un giorno all’anno si esorcizzano tutti i mali, nella felicità dei partecipanti.
Il cibo, il vino, la satira e l’irriverenza, sembra proprio che per qualche ora non manchi nulla. A carnevale a Nemoli l’aria si fa leggera, in una piacevole amalgama di tradizione e modernità, che sembra destinata a durare ancora nel tempo.