Armando Lostaglio
Lo spettacolo degli imbecilli senza frontiere che offrono le strade francesi in questi giorni, danno la misura di quanto lontana sia l’Europa: basta un campionato continentale di calcio per scatenare le imboscate degli idioti senza tempo né identità. I padri dell’Idea unitaria (Spinelli su tutti) faticano a leggere quanta stoltezza possa nascondersi e fecondare nei loro posteri. Ci sono volute guerre mondiali per debellare il virus secolare delle divisioni, etniche e culturali. Ma poi, misure di sicurezza contro attentati islamisti vengono utilizzate per difendersi dagli ubriaconi che arrivano dal nord e dall’est di una Europa attiva solo nella sua moneta. Un anziano, che le guerre le ricorda da bambino, suggerisce che al solo vederle queste bande di idioti battersi in guerriglie urbane, occorrerebbe eliminarle dall’alto con una mitragliatrice … oppure lasciare che sfoghino le loro frustrazioni nel fare guerre vere, mandandoli in legioni straniere contro il presunto stato islamico. Altro che lasciarli riempire di ettolitri di birra ed altri additivi.
“Non c’è nulla al mondo / che l’entusiasmo dell’imbecille / non riesca a degradare”.
Questo aforisma di Nicolàs Gomez Dàvila (filosofo colombiano) forse meglio dei fiumi di parole e di immagini di questi giorni, riassume la volgarità nella quale, ancora una volta, questo continente sprofonda per colpa di sparute pattuglie di ebeti. La bellezza del calcio raccontata da scrittori come Osvaldo Soriano (era anche un centravanti) e da Gianni Brera, da poeti eccelsi come Umberto Saba e Pasolini (giocava benissimo da ala), è alla mercé di un manipolo di poveracci che non hanno mai letto una pagina di questi autori, che non sanno della geometrica avvenenza di uno schema prima che il pallone vada in rete, di quei gesti atletici che incantano da sempre lo spettatore, i bambini e i sognatori senza età. Non sanno dell’eleganza e dell’umanità dentro e fuori il campo di calciatori come Scirea, della pregnanza del tiro di Riva, e poi di Rossi e di Baggio; “della genialità di uno Schiaffino” (cantata da Paolo Conte) nemmeno a parlarne; non lo sanno, poveretti, perché conoscono solo del campo di calcio come di un campo di guerra, dove predomina la legge muscolare e tatuata del più forte. Il tifo e l’amore per la propria squadra, per la propria nazione, in quell’abisso, c’entra ben poco. L’agonismo di gara è mutuato in spranghe e catenacci per far male. Non è colpa loro se la partita di calcio diventa uno stupro e non un atto di amore, l’erbetta verde da carezzare e non da violare. Il calcio più che come “metafora della vita” (come talvolta lo si identifica) può diventare anche metafora dell’amore: la bellezza del gesto e della geometria collettiva contro lo stupro e la violenza dell’arrogante prepotente. Noi che siamo stati coevi di mitici numeri 10: Pelè, Maradona ed oggi Messi (al netto delle evasioni fiscali), e da corollario olimpico Crujiff, Rivera, Keegan, Platini e Del Piero, viviamo la violenza scatenata da una partita come uno violenza carnale da cui difendersi solo con la cultura può non bastare.
Scriveva Saba nella “Tredicesima partita”: Sui gradini un manipolo sparuto /si riscaldava di se stesso. / E quando / – smisurata raggiera – / il sole spense /dietro una casa il suo barbaglio, / il campo schiarì il presentimento della notte. / Correvano sue e giù le maglie rosse, / le maglie bianche, in una luce d’una strana / iridata trasparenza. Il vento deviava il pallone, / la Fortuna si rimetteva agli occhi la benda. /Piaceva / essere così pochi intirizziti /uniti, / come ultimi uomini su un monte, /a guardare di là l’ultima gara.”
Siamo dunque all’ultima gara, al finale di partita o c’è ancora speranza che il pallone vada in rete come in un rito d’amore?