Beatrice Ciminelli
“Se è possibile annientare un innocente così, è possibile tutto“, scrive Enzo Tortora a Francesca, mentre i telegiornali mostrano le immagini dell’arresto, Enzo Tortora camorrista, Enzo Tortora scortato dai carabinieri, Enzo Tortora in manette.
Arrestato a 54 anni, nell’estate del 1983, con l’accusa di appartenere alla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo, trascorse sette mesi in carcere prima dei domiciliari e in quei mesi scrisse 45 lettere a Francesca Scopelliti, la donna amata, sfogandosi dal carcere di Regina Coeli, ma, allo stesso tempo, facendole coraggio.
“Non piangere, ti prego” le dice nelle lettere raccolte dopo più di trent’anni da quel terribile errore giudiziario che devastò la vita di un uomo.
“Lettere a Francesca” è un libro che racconta la solitudine e l’annichilimento di un innocente in prigione, il volto di Portobello amato dagli italiani che in poco tempo viene disprezzato e sottoposto al processo mediatico.

“Se io cedessi sarebbe un disonore“[…]”Sai che scriveva Napoleone a sua madre? Una cosa molto dolce, che ripeto a te: State sana. Altrimenti, non avrei più nessuno, superiore a me. Ed è tutto, Francesca. Capito, mon Général?”.
In carcere si restringe l’orizzonte della vita. La vivibilità è ridotta ad un tavolo, un letto, un lavabo; si dubita quasi di esistere, addirittura di essere mai esistiti. Le racconta di una cella ignobile, quasi una caverna, stretti in sette, tutto tristissimo, sotto un sole che nell’ora d’aria sembra quasi beffardo.
“Sai, (non te la prendere, lo dico a te e alla memoria dolcissima di mio padre) sto odiando il Sud. Non è giusto lo so, ma la mia aspirazione ad un passaporto norvegese va facendosi irresistibile“.
Mentre si dissolveva totalmente la sua fiducia nella giustizia e nelle istituzioni, gli restava soltanto l’amore per Francesca. Che guardava il mare per lui.
Grazie per aver ricordato con giusta emozione quel terribile errore giudiziario che non solo devastò la vita di un uomo onesto e della sua famiglia ma lo portò pian piano alla morte.
Giustizia vera non fu fatta : i giudici che lo condannarono ingiustamente, continuarono il loro lavoro e fecero, nonostante tutto, anche carriera in Magistratura.
Tortora non cedette perché era ben cosciente che la verità non può piegarsi ne al ricatto ne alla menzogna. Grande lezione di civiltà.
Proprio così, la magistratura non pagò per le sue colpe, ritratto di un’Italia non molto diversa da quella di oggi. La ringrazio per aver apprezzato.
Cordiali saluti