Lorenza Scaldaferri
Il sogno di andare in Cina si è materializzato nel settembre del 2016. Ad accogliermi c’era il caldo afoso e appiccicoso di Shanghai, un pullman che puzzava di fumo e un gruppo di persone sconosciute con le quali avrei condiviso l’intero semestre di studi alla East China Normal University. Ricordo lo shock della mia prima volta con i 40 gradi di smog e caldo: credo di non aver respirato per qualche secondo. Ritrovarsi in una metropoli con 26 milioni di abitanti mi faceva sentire ancor più piccola di quello che sono. E il mio metro e cinquanta di altezza non aiuta di certo! Anche se devo ammettere che in Cina mi sono sentita a mio agio: riuscire ad aggrapparmi senza problemi ai ganci della metro o sull’autobus mi rincuorava.

Dicono che quando si viaggia in posti così remoti lo shock culturale sia una conseguenza inevitabile. Non posso affermare il contrario, ma il mio shock è stato soprattutto dovuto allo stravolgimento delle mie aspettative. Avevo sempre immaginato la Cina come il Paese dai tetti con le punte arrotolate, case basse con porticine minute. Invece mi sono ritrovata chilometri di cemento che correvano verso il cielo, motorini elettrici e codici a barre che bastava scansionare con il telefono per mangiare il tuo piatto di riso fritto. Beh, arrivando a Shanghai avrei dovuto aspettarmelo. Anche il campus universitario era un misto di cemento con alcuni elementi della tradizione, tipo il giardinetto sul laghetto pieno di fiori di loto. Shanghai mi ha aperto gli occhi sul concetto della Cina che viaggia a due velocità.
La città racchiude modernità e tradizione, ricchezza e povertà. Una delle prime passeggiate che ho fatto alla scoperta di Shanghai mi ha portato in una delle zone chic. Era pieno di negozi di alta moda, boutiques e centri commerciali accessibili per me solo per andare in bagno. Dietro allo scintillio dei grattacieli si nascondevano le case dove abita la maggior parte dei cinesi. Piccoli appartamenti, un’unica camera per non so quante persone. Spinta dalla curiosità, mi sono affacciata dalla porta semiaperta per vedere quante persone abitavano in quel minuscolo appartamento. Era una stanza con un letto dove sedevano due bambini. C’era un fornelletto e una marea di scarpe a terra. E pensare che proprio dietro l’angolo ci sono le terrazze panoramiche tanto amate dagli occidentali per una formidabile cena vista Bund.
La tradizione l’ho ritrovata un po’ nella capitale, almeno in parte. Piazza Tiananmen, il Tempio del Cielo, la Città Proibita sono tutti luoghi che nell’immaginario comune vengono associati alla Cina. Allo stesso tempo sembrano quasi luoghi fittizi, di milioni di anni fa e ora riproducibili solo sui set cinematografici. Quando sono andata a Pechino per la prima volta era dicembre. A differenza di Shanghai l’accoglienza è stata molto più fredda: la temperatura era sottozero, i laghi erano ghiacciati e le bevande calde erano all’ordine del giorno – anche se bere acqua calda in Cina è un’abitudine in tutte le stagioni. Però ho avuto l’incredibile fortuna di trovare un tiepido sole d’inverno e un cielo azzurro ad accogliermi, cosa rarissima nel nord della Cina.

Pechino è il centro del potere cinese e lo senti. I controlli raddoppiano. Le piazze e i siti turistici sono circondati da militari. Dopo qualche settimana in Cina ti abitui ai controlli di routine persino alle fermate della metropolitana, ma non mi era mai successo di doverlo fare per passeggiare in una piazza. Il primo giorno a Pechino, dopo aver passato il primo metal detector, mi hanno negato l’accesso alla famosissima Tiananmen. A quanto pare c’era un’esercitazione militare, non ricordo a proposito di cosa. Mi hanno dirottata ai bordi della piazza quasi vuota, con uno squadrone in verde che si muoveva come se fosse un unico blocco. In lontananza potevo osservare lo sguardo del ritratto di Mao Zedong che troneggia all’ingresso della Città Proibita.
La Città Proibita è stata la dimora imperiale delle dinastie Ming e Qing, ultima dinastia prima della fondazione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949. Una volta dentro sembra un labirinto immenso, tra ampi spazi, un susseguirsi di palazzi minuziosamente decorati e animali guardiani della città. I tetti dorati richiamano il giallo, colore dell’imperatore. Il complesso si erge nel cuore di Pechino ed è circondato da un fossato in difesa del palazzo. Dalla Collina del Carbone, costruita artificialmente a nord della Città Proibita, si ammira in tutta la sua simmetrica bellezza. Ho cercato di immaginarla in epoca imperiale, ma gli spintoni dell’orda di turisti cinesi ha intralciato la mia fantasia. Per fortuna, essendo pieno inverno e bassa stagione, i visitatori sulla Grande Muraglia erano davvero pochi.

Da bambina, forse ingannata dal nome, avevo sempre pensato alla Grande Muraglia come qualcosa di mastodontico e imponente. Una volta arrivata ai piedi di una delle sette meraviglie del mondo, sembrava un piccolo contorno che ricalcava le cime delle montagne. Giunti in cima, ti ritrovi a camminare seguendo l’andamento del terreno, nonché a farti numerose piccole scale. Nella parte più turistica e ricostruita, sembra quasi di camminare su una passerella. Non mancavano, infatti, coppie di sposi con tanto di troupe al seguito per immortalare quell’attimo di felicità. Il sentiero che non rientra nel percorso suggerito dalle guide turistiche è molto più selvaggio e anche pericoloso. Sconsigliatissimo per chi non ama arrampicarsi e sporcarsi di terra! Per i più pigri ci sono anche metodi alternativi per arrivare in cima, come la seggiovia. Quella sì che diventa una semplice passeggiata sulla Grande Muraglia! Lungo la via acchiappa-turisti ci sono uomini o donne cinesi con i loro banchetti che ti propongono souvenir, degli snack o una bella birra, rigorosamente calda. Dopo una lunga scarpinata, la sensazione che si prova arrivati a destinazione è quella di una pace interiore indescrivibile. Soprattutto se si è fortunati e non c’è foschia da smog che ti impedisce di ammirare il paesaggio circostante.

L’unica nota di amarezza che mi aveva lasciato il mio primo tour Pechinese era realizzare come luoghi, custodi di storie millenarie, stiano diventando merce da attrazione. In prossimità di un sito, c’è sempre la via dello shopping con oggettini inutili che ritrovi in qualsiasi mercato cinese. Ormai trovi McDonald’s o Burger King vicino o dentro ogni area turistica. Se ti senti perso e vedi un fast food occidentale, stai pur certo che a breve troverai la zona che stai cercando. Ma la Cina è anche questo: rinnovare, modernizzare, perché il vecchio è simbolo di arretratezza. Io sono arrivata in una Cina già proiettata verso un futuro che noi neanche immaginiamo. L’interconnessione tra tradizione e modernità è elemento che caratterizza la Cina contemporanea. Nonostante l’autenticità per molti aspetti venga filtrata, c’è ancora molto da scoprire. Ovviamente non lo si trova sulle guide turistiche. Lo ritrovi nella quotidianità dei gesti, nell’arte di bere il brodo senza schizzarsi e nel chiederti spudoratamente quanto guadagni.
Se quattro anni fa mi avessero chiesto quali delle due città preferivo, avrei risposto senza un minimo di esitazione Pechino. Non avrei mai immaginato che una come me, amante della natura e della tradizione, potesse affezionarsi al grigio dei grattacieli. Eppure, nonostante le prime passeggiate a Shanghai siano state prive di emozioni, quando sono dovuta partire ne ho sentito la mancanza. A distanza di due anni, mentre mi avvicinavo al famoso skyline del Bund, il cuore mi batteva forte. La marea di gente che mi separava dai grattacieli dall’altro lato del fiume rallentava il ricongiungimento con i giganti luminosi. Ho tenuto lo sguardo basso fino alla fine di Nanjinlu. Poi si sono materializzati davanti ai miei occhi. Erano un po’ diversi da come li ricordavo, avranno cambiato il gioco di luci? C’è una new entry? Ma in quel momento non mi importava. Ero di nuovo a casa.