Giovanni Gazzaneo

Il professore era in piedi, infagottato in un camice allacciato in vita talmente stretto da renderlo, piccolotto e tondeggiante, simile a una soppressa calabrese.
Non appena con una scoppolatina il “laureando” ebbe salutato, lo accolse con un:
– Oh! Ci siamo decisi, allora?
– Beh,… sì – abbozzò Quartulli.
– E hai fatto bene! Lo dicevo sempre al tuo papà che, poverino, non faceva che parlare di te: la pratica! La pratica ci vuole, in questo mestiere. E ancor meglio in un ospedale di provincia, dove, vivaddio!, si impara più che acchiappando mosche per dieci cliniche universitarie.
E su e giù, mani incrociate sul didietro, dalla finestra alla parete opposta, con Quartulli che muoveva il capo come se stesse seguendo un incontro di tennis.
Sanguigno e iperattivo, il professor Schiapparelli si era laureato giovanissimo. E a trentaquattro anni era diventato primario ospedaliero. Faceva tutto di corsa. Anche quando… Si raccontava che nel paesetto appenninico dove agli inizi della carriera andava ogni tanto a sostituire il medico condotto, le sue esperienze erotiche si verificavano prevalentemente al volo, con rapidi incantonamenti dell’indigena di turno a ridosso di un tronco d’albero o lungo i muriccioli dei viottoli interpoderali.
Se il suo umore era buono, canticchiava in falsetto arie e romanze. Se aveva avuto da dire con gli amministratori dell’ospedale, o peggio, col primario chirurgo, professor Capparotto, era opportuno rimanergli alla larga.
Quella mattina strapazzava, tra una frase e l’altra, “Che gelida manina…”.
– Allora, caro il nostro Quartulli, cominciamo subito?
– Vediamo… oggi è mercoledì… Se non ha nulla in contrario, comincerei lunedì.
– Come vuoi. Fatti trovare in corsia alle otto e mezza e accodati: per mezzogiorno avremo finito e potrai tornartene a casa.
– Veramente, avrei un problema.
– Dimmi, caro, dimmi. Se posso…
– Vede, il fatto è che non ho la macchina e dal mio paese ci sono trenta chilometri. Corriere… meglio non parlarne. In treno, per essere qua in orario dovrei alzarmi con le stelle, cambiare a Lavezzola o addirittura fare il giro per Russi e Ravenna, immagini lo strapazzo. E nessuno che possa darmi un passaggio. Ho sentito dire che ci sono altri due laureandi che vivono in quella “dependance” dell’ospedale. Potrei adattarmi come loro…
– Ah, sì: Benatti, il nostro buon Benatti, e quel meridionale piccoletto che frequenta la chirurgia… com’è che si chiama? Gozzameo, Gazzoneo… o Vattelappesca. Vabbè, vedrò cosa potrò fare: ne riparliamo lunedì. Ah!: mi raccomando la puntualità. Per una volta, il sacrificio di alzarti con le stelle, lo puoi fare. Ciao.
– Professooore… – E indietreggiando col berretto in mano, Quartulli si ritirò.
Tutto bene. Nessuna domanda imbarazzante: il primario si era fidato delle panzane propinategli in buona fede da suo padre moribondo. C’era il momentaneo “forse” dell’alloggio e del vitto ma, gli venne giustamente da pensare, se c’era posto per due, figurarsi se non usciva qualcosa pure per lui.
E non s’era sbagliato: quando il lunedì si fece trovare in arnese da dottore davanti alla guardiola, Schiapparelli gli annunciò:
– Tutto fatto, caro! Ho parlato col segretario: tutto a posto! Finito il giro ti potrai sistemare nella casa occupata dai tuoi colleghi. – E se lo portò in corsia a braccetto.
Il giro fu, sin dal primo giorno, un calvario: oltre a non capire un accidente di “morbo di questo”, “sindrome di quell’altro”, “strofantina da un ottavo” e altre diavolerie del genere, Quartulli, di indole tendenzialmente sedentaria, penava non poco per via di quelle tre ore abbondanti da passare in piedi. Però, sopportava. E ogni qualvolta che Schiapparelli lo guardava, annuiva. Non sapeva perché, ma faceva di sì, dando a intendere di aver incamerato tutto quanto. Per il resto, non una parola.
Il professore interpretò quei mutismi come segni di disagio: càpita, agli studenti, le prime volte in corsia col camice addosso. Si ha l’impressione che tutti ce l’abbiano con loro: ammalati, medici, suore, infermieri. Però non mancava di stuzzicarlo:
– Un po’ di peperoncino dove dico io, ti ci vuole! To’, senti che razza di fegato!
E Quartulli palpava. E continuava ad annuire.
Poi si rese conto che se non voleva ingenerare sospetti o rischiare che lo si credesse un minchione, qualcosa doveva pur essere in grado di eseguire, non poteva fare tutto solamente per finta. Pertanto, aiutandosi col manuale del medico pratico e ricorrendo alla consulenza di suor Tersilla, imparò a prendere le pressioni e, più tardi, a fare le endovenose, utilizzando come cavie i pazienti più rimbambiti dall’arteriosclerosi.
Una volta che ebbe appreso decentemente ad azzeccare le vene senza confonderle coi tendini o infilzarle da parte a parte, fece sua quell’attività. Ogni mattina, di buon’ora, sbarbato e incravattato, raggiungeva la guardiola, dove trovava tutto pronto. E di lì, annunciandosi col carrello tintinnante di siringhe e provette, faceva ingresso, preceduto dalla suora, nel primo degli stanzoni.
Per un paio di settimane continuò ad accodarsi per il giro, poi disse che doveva darci dentro con lo studio, di modo che ne venne temporaneamente esentato. E quando il professore un giorno gli chiese di quale esame si trattava, dette la risposta giusta, perché si aspettava prima o poi una domanda del genere.
La convivenza con i colleghi della “dependance” non presentò problemi di sorta: i due erano buoni diavoli sempre disponibili per una birretta o una storiella allegra. Bastava che non si parlasse di esami, però: in tal caso Quartulli si ricordava di avere un impegno e se la filava; oppure accusava un improvviso bisogno fisiologico e correva a chiudersi in bagno.
I rapporti con i rappresentanti del clero nosocomiale furono, sin dall’inizio, ottimi.
Pio e rispettoso dell’autorità ecclesiastica, non mancava mai alla prima messa domenicale celebrata da don Alfonso nella chiesetta dell’ospedale (dove medici o altri studenti non erano entrati una sola volta, sia pure per sbaglio); e al cinguettante stormo di suore non parve vero che un rappresentante del corpo sanitario facesse mostra di sé a pochi passi dall’altare.
Una mattina il prete venne a trovarsi in difficoltà perché il giardiniere che serviva messa s’era ammalato. Quartulli ne prese il posto e il gesto ne rafforzò il prestigio tra le suore.

Da quell’istante ogni “comfort” gli venne concesso dalle onnipotenti sorelle. In particolare da quella addetta alle cucine, che si dette immediatamente da fare come una matta a trifolare funghetti, friggere rane e arrostire anguille di Comacchio espressamente per lui.
I pomeriggi li trascorreva in stanza, dove diceva di ritirarsi a studiare e dove se la dormiva saporitamente sino all’ora di cena. Dopo mangiato si fermava un’oretta o due da don Alfonso a guardare la televisione o a discorrere del lassismo dei tempi sorseggiando un bicchierino. A una certa ora faceva ritorno a casa con la solita scusa dello studio, per ficcarsi a letto con un giallo Mondadori.
Non pretendeva altro, per il momento. Sua madre, che nel frattempo aveva trovato da accudire un’anziana riccastra, non gli faceva mancare qualche soldarello per le sigarette, sicché il nostro, che nella vita s’era sempre saputo accontentare, pur di vedersi garantito quell’andazzo a tempo indeterminato, avrebbe sottoscritto (e fatto) chissà cosa.