Challengers – il match point di Luca Guadagnino

Challengers avrebbe dovuto aprire la Mostra di Venezia lo scorso anno, ma lo sciopero degli autori lo aveva impedito. E così, Luca Guadagnino ci abitua a tematiche forti – spaziando nei generi thriller horror drammatico – che coinvolgono la gioventù e la sua ambizione ad imporsi, spesso in sfere borghesi.

La sua regia registra un’impostazione all’americana (come Produzione impone) e talvolta rimane aggressiva. Come in questo suo ultimo lavoro, Challengers, che fa del tennis non solo il rettangolo del confronto, evocativo quanto basta sulla gara a tre (si traduce infatti sfidanti) nella simbiosi dei due ragazzi e lei, ago della bilancia di un rapporto volitivo e perverso. Tuttavia, il triangolo si avvale di un linguaggio fresco, con inquadrature tagliate o dal basso, dialoghi a favore di teen-agers, con l’uso assordante della musica atta piuttosto a disturbare, coprendo persino i dialoghi. La sceneggiatura di Justin Kuritzkes ci conduce in un andirivieni del tempo, a partire dal 2019. I liceali e amici d’infanzia Patrick Zweig (è Josh O’Connors, già protagonista di La chimera di Rohrwacher) e Art Donaldson (Mike Faist) vincono il titolo di doppio junior per ragazzi all’US Open. E’ qui che incontrano Tashi Duncan – la carismatica Zendaya, co-produttrice del film – promessa del tennis: i ragazzi ne restano folgorati. In una camera d’albergo, non vanno al di là di qualche bacio condiviso: ma fra i due ragazzi esplode una passione travolgente cui la ragazza assiste prima di andare via. Sarà Tashi a controllare tutti, declinandoli ai desideri di lei. La regia ci conduce nel classico triangolo, con richiami al Novecento di Bertolucci e ancor più a The Dreamers. Ma forse la lezione viene da ancor più lontano: Ernst Lubitsch e il suo Partita a quattro (1933). Simmetrie calibrate e potenza espressiva nei volti dei protagonisti, con la violenza di una pallina da tennis scagliata come una pietra, e che si rievoca dolcissima nelle goccioline di sudore al rallenty durante il match. Il tennis è una relazione a due, un corpo a corpo se pur a distanza, divisi da una rete che “ingabbia” le proprie fragilità, cui il cinismo di Tashi fa da giudice di gara, imponendo la propria femminilità, il proprio erotismo come una coltre di enigma a scapito del maschio, perdente. Pertanto, il triangolo rimarrà la geometria comprensibile, in un mosaico che si scompone e ricompone. Anche il silenzio (laddove non irrompe la musica di Trent Reznor e Atticus Ross) rimanda al duello caro a Sergio Leone; i due tennisti fanno tenerezza, pur nella durezza di uno sport apparentemente elegante, con riprese ben montate da Marco Costa. Non un match-point di alleniana visione, bensì un gioco delle parti fra passione e seduzione.

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