Maria Rosaria Cecere
Per lavorare, una donna deve rinunciare alla propria dignità?
Faccio fatica a respirare: il fiato mi si blocca in gola.
Ho dormito poco e male.
Ho i crampi. La rabbia mi stringe lo stomaco.
Ho le vertigini, ho l’impressione che il pavimento e il soffitto ruotino su se stessi e che stia perdendo l’equilibrio. Mi gira la testa, ho voglia di vomitare.
«Lurido porco! Unto e schifoso! Stavolta ha proprio esagerato, ing. Fausti. Non posso accettare le sue battute a sfondo sessuale, gli ammiccamenti, la mano sulla spalla, i suoi complimenti imbarazzanti e quello sguardo bavoso che mi fa sentire denudata. La sua insistenza è diventata ossessione, disagio. Io sono in azienda per lavorare. La deve smettere, porca miseria!»
Ma a che serve tirar fuori tanta audacia in questo momento, ora che sono sola e nessuno può sentirmi?
E pensare che anche Lucia, la mia collega confidente, mi ha risposto: “Pensi che non sia capitato anche a me? O ci stai o te ne vai! Vuoi cambiare il mondo? Accomodati pure. Poi, però, non venire a piangere da me. Siamo donne, vuoi capirlo, sì o no?”
No, io non voglio capire, non voglio accondiscendere alle molestie viscide di quell’uomo. Non lo tollero.
Mi svilisce.
Mi dà fastidio.
Oggi sono corsa in bagno in lacrime. Troppa l’umiliazione.
Solo se penso alle sue parole… “Non so se apprezzo di più i risultati professionali che consegui oppure le tue gambe così belle, slanciate. Hai gambe meravigliose, sai? Perché le copri con queste gonne sopra il ginocchio? Accorciale! Quando cammini e sei di spalle e il tailleur ti fascia nei punti giusti, stuzzichi certi miei pensierini…”
E io zitta, sono rimasta zitta, senza dire una parola, ma avevo le mani sudate.
Mi sono sentita morire.
È stato tremendo.
È un maiale. Non è giusto subire la sua prepotenza, la sua sfrontatezza. Odio il timbro della sua voce melliflua e subdola.
Ma è una colpa essere bella, brava? È una colpa essere nata donna?
Mi sento smarrita, come se avessi perso la direzione e mi trovassi senza bussola in una foresta oscura, dove il groviglio di rami e foglie degli alberi non lasciano filtrare la luce.
Che schifo! Eppure io ho conseguito la laurea con il massimo dei voti, ho piena consapevolezza del mio talento, svolgo bene il mio lavoro. E devo sottostare a uno come lui, e devo anche sopportare le sue angherie? Possibile che per fare carriera, bisogna compiacere qualche dirigente? Non credo di esserne capace.

Lo devo mettere a posto, la deve smettere, e se non lo fa, lo denuncio, non mi importa se mi renderà la vita impossibile. Ce la farò. Ce le devo fare. Ci deve pur essere qualcuno che funga da rompighiaccio, che riesca a penetrare nella crosta del muro del silenzio e dell’ipocrisia, fino a demolirlo, anche se sono consapevole che non sempre chi ha ragione la spunta. Soprattutto se sei una donna.
Ma dopo? Che succederà al mio lavoro? Riuscirò a trovarne un altro?
E se avesse ragione Lucia?
Non riesco a darmi pace. Non so se mi fa più male l’umiliazione subita, il sentirmi indifesa, con le spalle al muro o essere conscia delle grandi difficoltà per vincere la battaglia.
Oggi sarò assente. Comincio con il prendere un giorno di permesso.
Leggere è sempre un viaggio nell’anima dell’autore. Ma anche dentro di sé.
Scrivere per raccontarsi. Emozionarsi per emozionare.
Un brano, il mio, che vuole essere un omaggio alla donna.
Aggiungo a questo, un messaggio di speranza: “C’è bisogno di unità universale, non di genere, ma di umanità. Sogno un mondo armonico dove non ci sia più la necessità di identificare l’essere umano dal suo sesso, maschio o femmina, dal suo orientamento in materia di attrazione: omosessuale, lesbica, bisex. Laddove c’è un solco che divide, dobbiamo gettare sabbia che lo livelli. Tutti. Insieme”
Buona lettura. Buon Viaggio.
Maria Rosaria Cecere