Armando Lostaglio
The Brutalist è un film corpulento, epico, che inneggia ad una monumentalità evocata dal proprio movimento architettonico. Certo, si muove nel sommesso autocompiacimento e del necessario (talvolta ostentato) virtuosismo: scenico ed interpretativo. Alla Mostra di Venezia, dove fu presentato in concorso, malgrado la sua lunghezza (215 minuti) ha convinto tutti con il Leone d’argento alla Regia per Brady Corbet, e una decina di candidature all’Oscar 2025.

Resta sicuramente un trattato di storia e di esperienze artistiche, di amore e tradimenti, di sogno americano e retoriche annesse. Un film a misura di Adrien Brody, lui certo monumentale ed accademico, forza della natura fra spirito e fisico, animato da un respiro rapsodico, fondato su una ricerca artistica che storicizza ogni sequenza. La vicenda umana ed artistica ha inizio nel 1947, quando l’ebreo ungherese László Tóth, scampato all’Olocausto di Buchenwald, emigra negli Stati Uniti. Il campo di sterminio nazista lo ha separato dalla moglie Erzsébet (Felicity Jones) che aveva creduto morta a Dachau e ora invece gli scrive da un campo profughi dell’Armata Rossa, promettendogli di riabbracciarlo non appena otterrà anche lei il visto. Ed accadrà, assumendo un ruolo fondamentale nella narrazione. Stimato architetto del Bauhaus prima dell’ascesa del nazismo, László va a vivere a Filadelfia (che in greco vuol dire “amore fraterno”), ospite del cugino Attila Molnár, immigrato prima della guerra e assimilatosi alla comunità, anglicizzando il suo cognome in Miller e sposando la cattolica Audrey. Ma quella città è insofferente agli ebrei, che pure esprimono una comunità attiva. Dopo diverbi con il cugino, per via della insofferenza (erotica) di sua moglie, László vivrà in un dormitorio dove troverà un senzatetto di colore insieme al piccolo figlio. La fortuna è solo dietro l’angolo, riconosciuto grande architetto ed esponente del Brutalismo, corrente che prevede l’utilizzo del cemento armato a vista ispirata al Beton Brut di Le Courbisier. E pure interni essenziali quanto ariosi. Nel brutalismo si potrà leggere anche la scelta di regia che non risparmia nulla allo spettatore, rudezza compresa, gioca per addizione fra eventi e colpi di scena, sebbene il film ben scorra incredibilmente a dispetto delle oltre tre ore e mezza. È nel finale tuttavia che Corbet e la sceneggiatrice Mona Fastvold (entrambi poco più che trentenni) si arrovellano in un epilogo burrascoso, prima che il film si concludesse alla prima Biennale di architettura di Venezia, 1980, che celebrerà la visionarietà superba del grande Tóth.