Armando Lostaglio
Visto al Cinema Lovaglio di Venosa
L’ultimo film dei Manetti bros assume una definizione immediata: leggerezza. Vede nella purezza di un anziano sognatore il crepuscolo di uno sport, il calcio, tanto bello quanto inquinato da poteri, ostentati ed occulti.

A vestire i panni e dare le movenze giuste al protagonista, don Vincenzo, è Rocco Papaleo, credibile, discreto e triste, nel suo accento calabrese di Palmi, costa tirrenica contigua a Reggio. È il film omaggio alla madre dei due registi, originaria della cittadina. I Manetti osano: sfere calciate a rallenty per un confronto fra campo di calcio e vita vissuta. Etienne Morville (Blaise Afonsi) è un vero prestigiatore con il pallone, gioca in un grande club ma ha un pessimo carattere, che lo porta spesso ad essere espulso e restare fuori rosa per squalifiche. Intanto a Palmi don Vincenzo pensa in grande: ingaggiarlo per farlo giocare nella U.S. Palmese, categorie regionali. Partenariato popolare e ricorso al mafioso (non può mancare al Sud). Forza di popolo nel tifo asfissiante e la solitudine di un dignitoso don Vincenzo, vedovo e padre di una bellissima ragazza, Concetta (Giulia Maenza). Tanti elementi riflettono una malinconia moderna in questo film che i fratelli Antonio e Marco Manetti hanno ben girato, con dosi di ironia. Il talento del protagonista cresciuto nelle banlieu parigine che allude al riscatto sociale ma lo dissipa fra discoteche, “veline” e auto di lusso. Sembra la parabola discendente del bizzoso Balotelli, che persino i gossip ormai ignorano. In alcuni tratti il film riflette gli scontati film anni ’80 del Lino Banfi-Oronzo Cana’, con qualche allusione fantozziana: luoghi comuni e un macchiettismo forse eccessivo; per certi versi è un “benvenuti al sud” in chiave meno retorica. Eppure sovviene lo scrittore argentino Osvaldo Soriano, origini italiane, che scriveva di calcio: “lo sport popolare per eccellenza, che non esigeva denaro e si poteva giocare senza null’altro che la pura voglia.” La voglia di giocare o di stare al gioco, disegnare geometrie sulle traiettorie di un pallone, calciato sul campo verde oppure polveroso. Amare il calcio che è metafora della vita: gioco di squadra in 11 ma poi è il talento del singolo a fare la differenza. Ne hanno scritto filosofi come Sartre, poeti come Borges e Gatto, il calcio come rituale e religione che appassionava Pasolini: giocava benissimo da ala. Il regista Werner Herzog idealizza la bellezza del gioco nell’elegante difensore Franco Baresi. Con il filosofo Edilberto Coutinho sforiamo l’antropologia e la politica: “Il calcio se ben praticato è forza di popolo. I dittatori passano sempre, ma un gol di Garrincha è un momento eterno che non lo dimentica nessuno”. Infine, al lucano Rocco Papaleo va l’omaggio ideale di due giovani di Muro Lucano, Juan e Teodoro Farenga che, emigrati in Argentina, 120 anni fa fondarono il Boca Junior, dove giocò il più grande calciatore di sempre: Diego Armando Maradona.