Antonio Fortunato
Dal libro: i ricordi di Antonio De Minco
“La raccolta dei fichi e operazioni per la loro conservazione”
Agosto e settembre sono I mesi in cui maturano I fichi, ma a causa di un’estate anomala (tanta piaggia e poco sole) non abbiamo avuto un buon raccolto, anzi
direi pochissima roba e di scarsa qualità.
L’abbandono delle terre ha fatto sì che molte piante di fichi sono morte e quelle poche che sono rimaste non vengono curate affatto: non raccogliamo più
nemmeno i gustosi frutti! E’ un vero peccato abbandonare sulla pianta i frutti maturi che poi appassiscono e successivamente marciscono sul terreno.
Sono I cambiamenti sociali, come si diceva all’inizio delle pubblicazioni. I ricordi di A. De Minco sui fichi ci riportano infatti in un’altra realtà. E’ vero che c’era la
miseria. La miseria c’è pure adesso, è sotto un’altra forma, la cosiddetta nuova povertà. Ora se noi mettessimo a coltura le nostre soleggiate colline
con piantagioni di fichi, coltivazioni di piccoli frutti quali more, lamponi, mirtilli, ribes, fragoline (vedi Atti Convegno Nazionale Parco Pollino 1998) potremmo sconfiggere un po’ di miseria (come si faceva allora) creando occupazione giovanile. E potremmo mangiare ottimi fichi e ogni ben di Dio. Per il momento, leggiamo
dal libro: I ricordi di A. De Minco.
“La raccolta dei fichi e operazioni per la loro conservazione”
Tra i bisogni primari troviamo la fame. Ebbene, l’uomo per soddisfare quel bisogno e per renderlo più soddisfacente al massimo grado, ha creato le diverse attività, che producono ricchezze e risorse. Ma ahimè, in quell’epoca sia i mezzi che la fantasia e la creatività non consentivano quelle migliorie che, con l’avanzare delle scienze e la perfezione delle tecnologie hanno consentito un tenore di vita migliore. Ebbene, allora ognuno metteva in pratica quei rozzi mezzi che consentivano la sopravvivenza. Si ritornava al vecchio adagio “fare come hanno sempre fatto gli antichi” e la vita continuava, senza traumi e senza gloria. Come ho avuto modo già di scrivere in altre pagine, quasi tutti erano proprietari di qualche pezzo di terra. In quei terreni taluni avevano piante da frutti di diverso tipo, fra queste vi erano le piante di fichi.
Ottimo frutto sia quando è fresco, sia quando è secco. La pianta, contrariamente alle altre, non richiedeva cure particolari. Una volta raggiunta una certa età moriva, così come tutte le cose di questo mondo: la vita biologica è questa.
Da queste piante, nella buona stagione, estate inoltrata, si raccoglievano i fichi. Poiché la quantità era notevole, una parte veniva trasformata in marmellata, altra veniva essiccata, su apposite basi di vimini, al sole. Ancora una parte si lasciava nel suo colore naturale, altra, posta nel forno, veniva resa mielosa e di colore bruno. Quando si desiderava una confezione più raffinata, allora i fichi venivano farciti con delle noci e mandorle, con aggiunta di un po’ di alloro. Squisito frutto, specie nelle serate invernali, che si consumava accompagnandolo con il pane. Costituiva inoltre, anche merce di scambio. Si offriva in cambio di prestazione da parte di donne delle pulizie. Ma a nessuno si rifiutava un pugno di quel frutto.
Quando poi, nelle giornate fredde e umide dell’inverno, il raffreddore faceva tante vittime, per l’incalzare della neve e della pioggia, i fichi, frammisti a mazzetti di camomilla, venivano bolliti, ricavandone un ottimo sciroppo o decotto espettorante.
Ed ecco, nei mille modi di destreggiarsi, veder compiere dei veri miracoli, per ottenere beni che soddisfacessero i primari bisogni. Nell’abbondanza di beni si verifica spesso lo spreco, il declassamento del suo valore. Nella povertà, quando i conti, che pure sono una successione di numeri relativi, spesso si riscontra che quello prevalente è quello negativo. Ed in quei casi, ci occorre un altro vecchio adagio: “bisogna saper fare di necessità virtù”.
Quante strabilianti parole e quanti arzigogolati sofismi. Soltanto chi viveva quello stato di indigenza, scopriva e soffriva la realtà bruciante ed i morsi della fame; altri, gli altri esperiscono l’esperienza sui libri e la declamano attraverso i libri.