Federica Olivo

I raggi del sole non si riflettono sui terreni coltivati ma sulle tubature degli impianti di estrazione; quella fiamma che sovrasta il paesaggio, “tragica e spettacolare”, è forse segno di cattivi presagi; pezzi di legno, gli ultimi, che diventeranno strumenti e musica; la Madonna, che dal suo santuario non veglia più solo sui fedeli, ma anche sul Centro Oli; ruscelli in cui scorre acqua non più potabile; ristoranti da nomi tanto esotici da sembrare quasi ridicoli.
Esotici, o forse no, visto che il petrolio in Lucania è una realtà; e non è più l’unguento medicamentoso di cui i contadini non conoscevano il nome, ma l’oro nero, per estrarre il quale si danneggia l’ambiente, si modifica il paesaggio, si trasforma una società.
Questo, e molto altro, è raccontato in Nero di Lucania, un reportage realizzato dal fotografo Michele Amoruso e dall’antropologo Simone Valitutto, che ha scritto un testo di accompagnamento agli scatti: immagini e parole per raccontare quanto la Lucania stia perdendo in seguito al radicamento dell’industria petrolifera sul suo suolo. Una perdita che non basterà il denaro delle royalties a compensare.
“Con questi scatti mi interessava raccontare – spiega Amoruso, ideatore del progetto – i due aspetti di questa terra: da un lato una ruralità ormai in decadenza, dall’altro la modernità e l’arroganza delle strutture di lavorazione del petrolio che si sono imposte sul paesaggio, cambiandolo in maniera forse irreversibile”. Un cambiamento, quello portato dalle estrazioni petrolifere, che non riguarda solo ambiente e paesaggio “la Val d’Agri ha subito – spiega Valitutto, che nello scritto cerca di indagare gli effetti sociali di un cambiamento così repentino dell’economia dell’area – una mutazione genetica, passando da un’economia agricola che avrebbe potuto svilupparsi ulteriormente, data la fertilità del terreno, a un’industrializzazione che ha portato all’abbandono non solo dei campi ma di tutte le attività tradizionali, prima tra tutte, la tradizione della costruzione dell’arpa viggianese”. E se il lavoro inerente alla filiera del petrolio si intensifica, in Val d’Agri l’emigrazione giovanile non si arresta. “I pochi giovani che restano piuttosto che tentare di dedicarsi a valorizzare i punti di forza storici del territorio, preferiscono trovare lavoro all’interno del settore delle estrazioni; forse sono attratti dai soldi facili, ma quando il petrolio, risorsa non rinnovabile, finirà, cosa resterà di questa terra?” si chiede Valitutto. La risposta forse è già nelle vigne abbandonate immortalate da Amoruso e negli occhi della Madonna di Viggiano, alla quale in passato i lucani si affidavano riponendo in lei le stesse speranze che ora, secondo Valitutto ripongono nel petrolio.
Strana coincidenza cromatica, il nero della statua della Madonna e il nero del petrolio, sottolineata più volte dagli autori del reportage: vecchi e nuovi miti, il primo racconta di fame e di povertà, ma anche di speranza e di amore, il secondo, invece di un’illusione di sviluppo e di guadagno. E di un cambiamento per il quale, forse, i lucani del futuro non ci saranno affatto grati.
Bisogna imparare a fare di necessità virtù.