Giovanni Gazzaneo
“ALLORI E SFORTUNE DEL DOTTOR QUARTULLI”, Romanzo scritto dal dr. Giovanni Gazzaneo

Cap. I° –
L’inghippo
Nei due torrioni del candido edificio si srotolavano ampie scalinate a chiocciola che conducevano al reparto di Medicina da una parte, a quello di Chirurgia dall’altra. Il Pronto soccorso e le sale operatorie stavano nel mezzo. E sempre nel mezzo, fissata all’apposito sostegno, si ergeva l’asta con la bandiera.
Oronzo Quartulli sostò davanti alla monolitica facciata e si mise a osservare: l’impronta del fascio littorio ancora visibile in cima al portone, i curati vialetti del giardino, le auto dei dottori, le biciclette delle infermiere assiepate nell’apposita rastrelliera e una suoretta di passaggio. Pareva uno di quegli acquirenti aggirantisi per la fiera di Bagnacavallo, intenti a verificare la bontà del prodotto prima di passare dal notaio per la firma del rogito.

Cominciava ad essere applicata quella riforma sanitaria della quale politicanti e galoppini si andavano da tempo riempiendo la bocca, confidando nella circostanza che quando c’è di mezzo la salute la gente è disposta a tutto. Tanto più ad assecondare con scheda e matita copiativa i più bravi nel propagandare la propria merce.
Tale riforma, che a sentire simili personaggi avrebbe fatto crepare di salute la popolazione dell’intera penisola, prevedeva, tra i tanti progetti, l’assunzione in massa di medici che al momento, però, non c’erano. Le università ricevettero precise direttive in proposito: basta con le selezioni. Prendere, se lo volevano, pure quelli provenienti dall’istituto per ragionieri o dalla scuola alberghiera e farne medici. Tanti. Come venivano venivano.
Colti in contropiede, molti ospedali, specie quelli periferici, si videro obbligati a ripiegare anche su studenti prossimi alla laurea, in qualità di allievi interni. Primo, perché imparando si rendevano utili in qualche modo, secondo, perché al momento opportuno se li sarebberero trovati a portata di mano dopo esserseli allevati in casa.
Orbene: Oronzo Quartulli aspirava a diventare uno di questi.
Nato a Granarolo, dove suo nonno era approdato un cinquantennio prima da un paesotto del Meridione a gestire un “Sale e tabacchi – Chinino di Stato”, circolava sempre profumato e incravattato, e si diceva da tempo che fosse lì lì per diventare dottore.
Era stato il padre a decidere per lui e a fargli intraprendere quella strada, mandandolo dapprima a recuperare anni scolastici per collegi di mezza Italia e poi, una volta conseguita l’agognata maturità, nella mecca della medicina, Bologna.
Ma Oronzo, che una cima in fatto di studio non era e che, a volerla proprio dire come stava, nutriva un’atavica intolleranza per l’editoria scolastica, ciò che poteva dare l’aveva esaurito durante quei tre buoni lustri impiegati a peregrinare per scuole medie e licei parificati di ogni sorta. Sicché, quando lo scaraventarono dentro l’università si sentì come un maratoneta stramazzato a fine gara, al quale un sadico allenatore da manicomio dicesse: “Dài, un’altro paio di giri! Fallo per me.”
Era troppo. Tentò di ribellarsi, ma si prese brutte parole. Ricevette pure la minaccia di essere buttato fuori di casa e rischiò l’onta dei ceffoni. Sicché, sulle prime, cedette, studiacchiò quanto bastava e passò persino qualche esame. Poi la crisi si accentuò, divenne irreversibile e si rese conto che non ce l’avrebbe mai fatta. Urgeva un rimedio.
L’ambiente universitario abbondava di casi analoghi al suo. Si guardò in giro con discrezione e, facendo finta che il problema fosse di altri, chiese qua e là.
Optò per lo stratagemma del “libretto smarrito“, sul quale prese a darsi fantasiosi “ventisette” e “trenta” in tutte le materie che voleva, scarabocchiandovi svolazzanti firme con inchiostri e caratteri diversi.
E papà? La beatitudine travestita da “homo sapiens”, eccolo, papà Quartulli!… Scalognato nella carriera scolastica, il suo “‘Nzino”, questo sì. Magari un po’ “tosto” in passato, lo riconosceva pure lui. Ma adesso… “Visto? Visto che il ragazzo è venuto fuori, finalmente?”, andava gongolando coi clienti.
Poteva mai immaginare, il tontolone, che lo sciagurato erede aveva due libretti universitari e che da anni se ne stava inchiodato davanti all’esame di Anatomia?
E per un pezzo la faccenda girò così.
Allorquando Quartulli padre dovette dire addio a tutti per un cancro fulminante, la vedova fu costretta a vendere negozio e licenza, perché i debiti lasciati per edificare il dottore in famiglia erano uno sproposito: fu un miracolo se le riuscì di evitare il pignoramento della mobilia.
Per l’orfano la nuova realtà non provocò scombussolamenti. Anzi fu, ad essere realistici, una liberazione. Bastò comunque a renderlo consapevole che in quella situazione lui e la genitrice avrebbero finito presto per ridursi alla fame.
Parenti, conoscenti (e la madre, logicamente) erano sempre convinti che un giorno o l’altro sarebbe tornato da Bologna col diploma di laurea arrotolato e infiocchettato. Anche il professor Schiapparelli, che gli aveva curato il papà all’ospedale, saputo che si trovava agli sgoccioli, lo aveva più volte invitato a frequentare la sua divisione per cominciare a sentire un po’ di cuori e palpare qualche pancia.
Fu così che il Quartulli, con le idee forse ancora in subbuglio, si risolse a varcare il portone del turrito nosocomio onde poter conferire col professore che lo attendeva nel proprio studio.