Chiara Lostaglio
Le inquietudini giovanili di Valeria Bruni Tedeschi
Il film è stato oggetto di analisi critica da parte del CineClub “Vittorio De Sica” Cinit ai giovani dell’accademia Belle Arti di Napoli ospiti a Potenza della Residenza artistica di BroxLab. E’ il quinto lungometraggio di Valeria Bruni Tedeschi, Forever Young (in concorso a Cannes) ed è probabilmente il suggello della sua maturità dietro la macchina da presa.
Il sacro fuoco dell’arte declinato in ogni forma è pure ossessione oltre che separazione dalla vita comune, porta dolore e solitudine. Questo affermerà in un passaggio del film il maggiordomo della casa nobiliare della protagonista.
E così, le aspirazioni artistiche della autrice italo-francese riaffiorano anche in questo film, ben fotografato come un documentario sgranato. Ci accompagna nella metà degli anni ’80, lei poco più che ventenne. Che è l’età intorno a cui viaggiano Stella, Victor, Adèle ed Etienne, allievi della scuola di teatro Les Amandiers di Nanterre vicino Parigi, diretta da Patrice Chéreau (nel film è Louis Garrel). Il quale affida loro le prove per portare in scena Platonov di Anton Čechov, una delle più tormentate opere giovanili del grande Russo.
E così, nel film della Bruni Tedeschi il palcoscenico si esprime come una seconda casa per i protagonisti: è lì che si intrecciano la passione per il teatro, gli amori personali, gravidanze e il terrore dell’Aids, devianze da droghe pesanti. C’è sempre un pezzo di spettacolo che si materializza fuori dal campo visivo, in una sfocatura, in quegli attimi in cui magari vediamo qualcosa ma non stiamo davvero “guardando”.
L’espediente della autrice rimanda alle tesi narrate da Al Pacino con il suo Wilde Salomè (2010, portato a Venezia) in cui mette in felice commistione ricerca sperimentazione e teatro che si fanno cinema. Nonostante la parola greca theatron significhi “luogo in cui si guarda” il teatro rimane una delle arti che più hanno a che fare con l’invisibile. Questo fa la Bruni Tedeschi con il suo “piccolo mondo” come lo chiamava Ingmar Bergman.
E’ dunque l’opera di Čechov l’emblema dei sogni giovanili. E si rintracciano nel film ulteriori riferimenti di grande cinema: come “I sognatori” di Bernardo Bertolucci, ossia venti anni dopo dal sogno collettivo e politico fino a quello piuttosto individuale dei protagonisti di Forever young. Ed ancora il cappotto cammello di uno dei protagonisti che rimanda a quello di Marlon Brando di “Ultimo tango a Parigi” e persino a “La prima notte di quiete” di Valerio Zurlini, entrambi del 1972.
Eppure la presenza dell’autrice (che ha sceneggiato il film con Nomie Lvosky ed Agnés de Sacy) è onnipresente, viaggia nelle corse su una vecchia Giulietta Alfa Romeo rossa, sul poster di “Taxi Driver”; le angoscianti ombre di Chernobyl. Il corpo di Stella (una credibilissima Nadia Tereszkiewicz) resta “per sempre giovane”, e può certo rappresentare il suo alter ego. Ad accompagnare la tormentosa narrazione c’è quel “Guarda che luna” che Fred Buscaglione cantava nel 1959, e che nella versione di un altro grande come Fred Bongusto verrà declinata ne “La legge del desiderio” di Pedro Almodovar (1987).