Mattia Arleo
“Non dimenticate l’ospitalità, per- ché alcuni praticandola, senza saperlo, hanno ospitato angeli” (Ebrei 13:2)
Le radici culturali della nostra civiltà sorta sulle sponde del Mediterraneo dovrebbero essere scosse dall’ultimo terribile episodio di naufragio di uomini, donne e bambini che volevano giungere sulle coste ioniche. Se solo ci ricordassimo ancora che la ξενία (l’ospitalità) era – per gli antichi greci che colonizzarono i nostri territori dell’Italia meridionale – un vincolo sacro. Un vincolo protetto da Zeus Xenios per cui, quando uno straniero si presentava alla porta, il padrone di casa non poteva negargli l’accoglienza, pena l’incorrere nell’ira del Dio.

Non era solo l’ospitalità in sé ad essere considerata sacra. Ancor di più, ad essere sacro era l’ospite, colui che veniva accolto. L’ospitalità, inoltre, è considerata una maniera concreta di servire Dio anche per la Bibbia. Anzi, è Dio stesso che si fa ospite! Sta scritto, infatti, «Ti prego, mio Signore, se ho trovato grazia agli occhi tuoi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo! Lasciate che si porti un po’ d’acqua, lavatevi i piedi e riposatevi sotto quest’albero. Io andrò a prendere del pane, e vi ristorerete; poi continuerete il vostro cammino; poiché è per questo che siete passati presso al vostro servo. Quelli dissero: “Fa’ pure come hai detto”» (Genesi 18:3-5). La ragione di tale credenza e di tale uso è presto detta: l’ospite ha sempre qualcosa da offrire all’ospitante. È proprio della nostra cultura popolare, infatti, il recarci in visita portando un dono a chi ci apre le porte della sua dimora.
Chi di noi andrebbe a salutare un amico o un parente “con le mani in mano”? Non sia mai!
In una civiltà evoluta e sapiente come quella greca, non era difficile arrivare a pensare che l’apertura verso altre realtà culturali è sempre arricchente. Anzi, in taluni casi può salvare le civiltà dalla loro estinzione. Se ne conoscono, infatti, di casi in cui un popolo ha perso la sua identità e, alla fine, la sua esistenza non per essersi aperto troppo agli altri, ma, al contrario, per essersi chiuso in se stesso.
L’ospite ha sempre qualcosa da offrire! In alcuni casi, la salvezza.
Se solo ripartissimo da questa affermazione – tra l’altro “utilitaristica” –, non avremmo più alcun timore nell’aprire tutto ciò che c’è da aprire.
Questa volta, la strage di Cutro non può lasciarci indifferenti. Le lacrime, il silenzio, la morte sono a pochi chilometri dalle nostre case. Non si può pensare di continuare a vivere la vita di tutti i giorni senza un impegno attivo a favore dell’accoglienza. Un’accoglienza senza pregiudizi: non devono interessarci le ragioni per le quali tali persone sono dirette verso il nostro paese, almeno non più di quanto devono interessarci le loro vite.

E non dobbiamo nasconderci dietro le responsabilità degli scafisti trafficanti. Rischieremmo, infatti, di rendere chi ad essi si affida due volte vittime. Una prima volta per il sopruso subito da chi promette una facile traversata in mare; una seconda volta per il nostro atteggiamento di chiusura che pure li consegna alla morte.
Tutto ciò che ci basta è il loro essere persone, persone come noi. Tutto ciò a cui dovremmo pensare è salvarli, per salvare noi stessi.
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