La diaspora dei registi palestinesi – in prima visione a Rionero – SARAH E SALEEM di Muhayad Alayan

Ha lasciato nel pubblico di Rionero un pizzico di amarezza ma anche di compiacimento il film SARAH E SALEEM del regista Muhayad Alayan, uno dei registi definiti della diaspora palestinese. Ha aperto in Piazza Fontana Grande la seconda edizione di Vulture Movie Night per la XXX mostra CinEtica promossa dal CineClub De Sica – Cinit.

La forza del film sarà proprio nel finale, fortemente emotivo, che lascia qualcosa di sospeso e tuttavia di attesa, nella consonanza tutta al femminile di due donne tradite negli affetti e dalla Storia. Perché nessuna storia, pur nella quotidianità più remota, può rimanere del tutto privata quando si vive nel mezzo dell’atavica questione palestinese, nell’odio ricambiato con il popolo israeliano. Nulla rimane privato, “là dove nulla è possibile” (recita il titolo del film) neanche una storia che si nutre di una forte attrazione fisica, in un rapporto che fa dell’erotismo il riflesso rovesciato di un mondo eternamente in violento conflitto.

Sarah è israeliana, madre e moglie borghese, Saleem è palestinese, sarà padre e breve. Il loro contatto diventerà affare di stato perché non c’è segreto che tenga in quella società ai limiti umani e nella quale la quotidianità perdura nella cronaca senza vie d’uscita. Eppure la sceneggiatura (ben scritta) conduce lo spettatore ad affezionarsi e parteggiare per i due protagonisti il cui peccato sarà il “peccato originale” per eccellenza. Saleem (interpretato da un credibilissimo Adeeb Safadi) sopravvive facendo il trasportatore e cerca una via d’uscita fra le braccia di Sarah (è Sivane Kretchner), donna che si muove in equilibrio nei ruoli di madre, di moglie (suo marito funzionario dell’esercito israeliano) e di amante. I poli opposti della Gerusalemme in continua precaria instabilità, restano, sia religiosi che politici; eppure i due si cercano, sono attratti da una forza primordiale che travolge ogni storia: rappresentano forse la vera rivoluzione in quel contesto stantio e asfittico. Il marito di lei è una presenza ingombrante; la moglie di lui protetta dal velo, aspetta un bambino, è studentessa e viene aiutata dal fratello a tirare avanti, economicamente. Subentra nel finale un’altra donna, un’avvocatessa per la difesa dei diritti violati.

Solidarietà femminile. E’ dunque una storia di adulterio che altrove sarebbe passata come un pettegolezzo; a Gerusalemme no, troppe sono le implicazioni della vita pubblica che priva della libertà la vita privata di ciascuno; ogni sentimento diventa ostaggio di guerre inesplicabili. La calibrata regia del palestinese Muhayad Alayan, al suo secondo lungometraggio scritto con il fratello, porta i ritmi del thriller, dell’inchiesta, non nascondendo sguardi ammiccanti e focosi incontri in una quotidianità resa attuale dal sangue innocente tuttora versato. Il finale, dicevamo: sovviene un verso di Rilke dalle Elegie Duinesi, quando scrive: “L’eterna corrente trascina sempre con sé tutte le epoche, attraverso entrambi i regni e in entrambe le sovrasta.”

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