LE CITTA’ DI PIANURA, di Francesco Sossai

Inizia con una corsa veloce lungo le curve che scendono dal Bellunese (la strada del Fadalto, per chi la conosce), che tornerà verso la fine del film, quest’avventura on the road dal sapore veneto e messaggio universale, tra alcool e vita.

E’ la storia di un’amicizia tra due simpatici personaggi della marginalità veneta, Carlobianchi e Doriano (interpretati da Sergio Romano e Pierpaolo Capovilla) di intuibili origini bellunesi per chi i Veneti li conosce..le vette sullo sfondo del paese, il lavoro nella fabbrica di occhiali, il gelato, la discesa verso la pianura..

 

Il sodalizio alcoolico simboleggiato dai due cerchi sovrapposti dei bicchieri si collega in una scena chiave ai cerchi della Tomba Brion, e forse questa corrispondenza simbolica è la chiave di lettura del film.

Da un lato un legame fatto di complicità per il passato condiviso in modo pericoloso e avventuroso che si protrae in un presente ormai in declino, quando ormai non resta che berci sopra, dall’altro l’architettura e il Paesaggio veneto.

Il Paesaggio quando resta: la montagna, Venezia e le colline del prosecco, come da riprese del film.

Le città di pianura, ovvero, una indistinta successione di case geometrizie, tutto ciò che sta in mezzo.

Unica eccezione al cemento che abbruttisce i non luoghi di pianura la tomba in cemento voluta dai coniugi Brion e realizzata dall’architetto Carlo Scarpa: una meta poco conosciuta dai locali, una tappa che i protagonisti scoprono grazie a Giulio, giovane studente “terrone” in architettura (interpretato da Filippo Scotti) che strappano da Venezia due giorni al termine di una festa di laurea, per recuperarlo dal mal d’amore.

Architetto moderno Carlo Scarpa, in un territorio di nobili ville di campagna famose per il Maestro non citato (Palladio) ma abbruttite da superstrade che servono a congiungere non luoghi.

Eppure sembrano quasi più sani i nostri bevitori dei nobili decaduti.

E malgrado il numero infinito di ombre o forse proprio per questo si sorride con loro anche delle piccole cose, ed è un sorriso che contagia e addirittura trasforma: il nostro giovane studente via via si lascia andare fino a perdere rigidità e timori, e quando termina l’on the road parte per il suo viaggio in treno.

Un Veneto narrato con vari riferimenti letterari ma diverso per stile da quello di Mazzacurati, che parlando di un territorio parla il linguaggio universale dell’umano, nella metafora del viaggio: l’amicizia, l’amore, l’avidità, la tristezza, la nostalgia, il successo, l’insuccesso, i sogni infranti ( ‘Merica merica merica, cossa sarala sta merica’).

E alla fine, non ci sarà un’ultima ombra, ma una pallina di gelato.

Perché i protagonisti restano in fondo ingenui e sinceri come i bambini, e l’autore guarda a loro (come alla sua terra) con malinconica indulgenza e simpatia.

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