Giovanni Gazzaneo
La frequentazione del dottor Cogliuto, pensò, avrebbe potuto giovargli.
Tale Cogliuto, assistente anziano incaricato presso la divisione del professor Capparotto, era, da come le raccontava nei bar, persona ammanicata con l’alta società. Pareva che fosse asola e bottone con tutti i nomi che contavano in Italia, non esclusi i Lauro e gli Agnelli.
E in parte c’era da credergli: a meno che non si trattasse di un fotomontaggio, quello che faceva capolino su una vecchia foto di gruppo tenuta in cornice col presidente della Fiat sul suo yacth personale, era proprio lui. Un po’ più giovane, ma sempre lui, il Cogliuto.
Aveva conseguito il diploma di geometra in una cittadina della Campania, dove s’era messo a fare progetti per conto di un ingegnere. Si era anche dato alla politica e, prima consigliere, poi sindaco, avrebbe agognato il gran salto per Montecitorio.
Ma le cose avevano presa la via storta. Pare che, in qualità di primo cittadino, non si fosse portato proprio in maniera irreprensibile, il signor sindaco, che ai tempi della ricostruzione seguita all’ennesimo terremoto Irpino si era lasciato coinvolgere in certe antipatiche storie di bustarelle e cumparielli.
L’ingegnere col quale collaborava ebbe a subire l’onta delle manette, lui se la cavò con la caduta da sindaco nonché, poco dopo, con l’addio ai luoghi natali perché nel frattempo s’era andato a impegolare con una donna sposata, cosa per la quale a quelle latitudini esistevano ottimi presupposti per venir preso a schioppettate.

Aveva abbondantemente oltrepassato la trentina quando decise di studiare da medico e per farlo doveva ottenere la maturità liceale. Presentatosi come privatista in un liceo di Napoli, l’impresa gli riuscì a prima botta, dopodiché si iscrisse alla Cattolica, dove intraprese gli studi di Medicina e Chirurgia, portati a termine incredibilmente in cinque anni invece che in sei.
Qualcuno era convinto che fosse davvero imparentato, come asseriva, con un cardinale, per molti era uno sparaballe inveterato, per altri non era neppure laureato.
Però… se si trattava di aiutare qualcuno, beh, si dava da fare. Se non altro per mostrare che lui, se voleva, poteva tutto.
– E aspetti adesso per dirlo, benedetto ragazzo? – rimbrottò Quartulli allorché gli chiese se poteva introdurlo in certi ambienti. – Non potevi farti avanti prima?… Dài, che ci penso io, a farti conoscere il mondo. Guarda, domani ti porto con me a Ferrara. Il tempo di fare delle spesucce, poi sarai mio ospite alla “Vecchia chitarra” e… e concluderemo la serata in uno dei salotti più esclusivi della città: una contessa! Ti va, come inizio? – E gli diede una gomitatina alla milza.
Il giorno seguente Quartulli, acconciatosi meglio di un candidato all'”uomo dell’anno”, si recò da Cogliuto che stava alloggiato in una stanza riservata ai dozzinanti.
– Entra, entra! Mi sto facendo la barba – gli gridò dal bagno. – E se vuoi bere qualcosa, niente complimenti. Serviti da solo.
Versatasi una chinetta, Quartulli si guardò attorno: le pareti erano tappezzate di bizzarri diplomi e onorificenze: “Ercole d’oro”, “Ordine del fico d’India”, “Club di quelli che contano”. Sulla scrivania, foto di donne con dedica. Anche di attrici famose.
– Che ora è? – si sentì dal bagno.
– Le due e mezza.
– C’è tempo, tanto i negozi prima delle quattro non aprono. Faccio in un attimo.
L’attimo durò un’ora buona, durante la quale Quartulli se lo vide passare davanti in mutande una dozzina di volte armeggiando sul riporto con asciugacapelli, lacche e bombolette spray.
Grande cruccio, per Cogliuto, la pelata. Di gran lunga superiore a quello del cognome, per cambiare il quale aveva da tempo iniziato le pratiche.
– E’ che non ho mai tempo, tra guardie e sala operatoria… sapessi quando avevo la tua età… A proposito, quanti anni hai?
– Trentadue.
– Io ne ho quindici di più… Eh! Ne ho fatte di fughe inciampando nei pantaloni, dalle camere di certe “signore per bene”, quando avevo trentadue anni!
– Sei ancora giovane.
– Sì, sì, lo dici tu! Ma lo sai che un paio di settimane fa, con un’indossatrice, ho fatto la mia prima figuraccia? Lo sai? E’ vero che poi ho recuperato… sempre con lei, naturalmente. Però, sono i segni della vecchiaia che incombe. Datti da fare finché sei in tempo!
La macchina di Cogliuto, una coupé di colore rosso fuoco zeppa di accessori luccicanti, dava nell’occhio certamente più di quanto il proprietario potesse desiderare.
Guida sportiva e stereo al massimo, i due si diressero verso il capoluogo. Parcheggiato davanti al Castello, Cogliuto elargì chiassosamente cinquecento lire di mancia al posteggiatore e trascinò il collega nel primo dei negozi per le sue “spesucce”.
Visitò praticamente tutti centri di moda a portata di mano e non comperò neppure un fazzoletto.
– Bisogna andare a Bologna, per trovare qualcosa di decente: questo è un paesone di contadini. Che ora s’è fatta?
– Le sette e quaranta.
– Ehilà! Ehilà!: l’ora del rancio!
Siccome la “Vecchia chitarra” era chiusa per il riposo settimanale, ripiegarono su una tavola calda, dove Quartulli ebbe numerose occasioni per rimpiangere le scaloppine della suora e il trebbiano di don Alfonso.
Pagato il conto, Cogliuto esclamò:
– E ora… dalla contessa!
La contessa stava in un condominio popolare di Pontelagoscuro: terzo piano, senza ascensore.
– Non era meglio telefonare, prima? – chiese Quartulli col fiatone, sorreggendosi al corrimano.
– Non ha telefono.
– Ma sarà in casa?
– C’è, c’è, non dubitare.
In effetti, c’era.
Piccola e pienotta, la donna indossava una sorta di kimono dall’indefinibile colore originario. Aveva i capelli neri, corti, con taglio alla paggetto. E il naso a patata. E un trucco che, per quanto carico fosse, non procurava alcun abbuono, in numero di anni, alla faccia da cinquantenne che vi stava sotto: il tutto, con l’aggiunta di un canino superiore mancante, avrebbe mandato in tripudio un caricaturista.
Fece grandi feste a Cogliuto, poi osservò:
– Carino il tuo amico… Accomodatevi.
– Sola?
– Eh sì! Dovevi avvertirmi prima… e avrei provveduto. Ti presenti all’improvviso e in compagnia: non è così che si fa quando…
– Ma quelle due belle figliole di Modena? Credevo si fossero sistemate da te. Che fine hanno fatto?
– Quelle? Non me ne parlare! Mandate a far marchette dove meritavano!
Quartulli comprese istantaneamente tre cose: primo, che quello di “contessa”, più che un titolo nobiliare, era il nome di battaglia della donna; secondo, che sicuramente esercitava la professione di ruffiana; terzo, che al novanta per cento faceva, all’occorrenza, la baldracca.
Infatti, servito il caffè, la “contessa” propose:
– Che fate, vi fermate da me tutti e due? Dài, che ce la spassiamo!
Guardando l’orologio, Quartulli bofonchiò che aveva un impegno urgente. E anche l’altro fece capire che non ne aveva voglia.
– Sai, – disse Cogliuto per rompere il silenzio dopo che si erano rimessi in viaggio – adesso se la passa male e si arrangia come può, la contessa. Ma una volta! Avresti dovuto incontrarla dieci, ma che dico?, cinque anni fa: una classe, una cultura… E poi, le siamo capitati in casa senza avvertire…
– Torniamo in ospedale? – l’interruppe Quartulli.
– Prima facciamo una puntatina a Milano Marittima, voglio controllare la merce arrivata quest’anno.
Quartulli non ribatté, tanto ormai s’era rassegnato ad attendere, comunque andasse, l’epilogo della serataccia.
Si lasciò scarrozzare passivo, tra frenate e sgommate per i viali a quell’ora semideserti di Milano Marittima, completamente assente tutte le volte che il compagno d’avventura rallentava per urlare a qualche straniera ritardataria:
– Spaziren con noi, fraulein?
L’ultimo pensiero dell’esausto Quartulli, quando all’alba si fu buttato sul letto, andò al suo primario. E precisamente a quei momenti in cui, girandosi tra le mani una lettera o una consulenza proveniente dalla chirurgia, borbottava:
– Di chi è, di chi è questa firma? Vediamo un po’…
E all’istante in cui esplodeva trionfante:
– Lo dicevo, io! Chi poteva essere l’autore di certe incommensurabili minchionate? L’emerito Cogliuto!