Armando Lostaglio
Usciva nel 1976 il capolavoro “Tutti gli uomini del presidente” (All the President’s Men) diretto da Alan J. Pakula e interpretato da due immensi attori: Dustin Hoffman e Robert Redford. Il film si fonda sull’omonimo saggio scritto dai giornalisti Bob Woodward e Carl Bernstein, e riguarda l’inchiesta del Washington Post che nel 1974 portò allo scandalo Watergate e alle dimissioni di Richard Nixon da presidente degli Stati Uniti. Giusto 50 anni fa, era marzo, quella maniera di fare giornalismo d’inchiesta anche grazie a talpe (chiamate allora gole profonde) riuscì a smascherare trame oscure di una potentissima amministrazione, quella del guerrafondaio Richard Nixon.

E del suo sodale Kissinger, da poco deceduto. È lo stesso lavoro di inchiesta che Julian Assange ha portato alla luce in questi anni, al quale tanti giornalisti hanno cercato di attingere, stimandone la portata. E invece oggi è in carcere, nel Regno Unito, col rischio dell’ergastolo negli Usa, per aver smascherato, mediante il suo WikiLeaks, le diverse trame oscure di tanti diplomatici americani durante le amministrazioni di Bush e di Blair: come le inesistenti prove che giustificassero le guerre in Irak e in Afganistan.
Assange ha operato in nome della libera informazione, che nei regimi totalitari è vietata. Vietare è l’imperativo anche nelle libere democrazie d’Occidente, evidentemente. E’ come il dissenso del da poco seppellito Navalny in Russia, è encomiabile chi ha portato fiori al suo funerale. È encomiabile chi in Iran va al voto sfidando il regime. Ed è encomiabile il giornalismo di 50 anni fa di Woodward e di Bernstein, e quello di Report Rai3 in questi anni. Viva sempre Anna Politkovskaia che ha pagato con la vita per i suoi reportage sulla Cecenia. E Joseph Pulitzer, cui è dedicato l’apposito premio, quando affermava, nel lontano 1902: La democrazia e la libera informazione moriranno o progredirannoninsieme. Era il 1902. Guardava cosi lontano.