don Enzo Appella
In tempi ormai andati, i nostri cari vecchi raccontavano che, all’atto di morire, dalla bocca socchiusa a esalar indebolito l’estremo respiro partisse «na zamparella», una piccola farfalla, una tineola per l’esattezza.
L’anima (psyché) si librava decisa in aria verso la luce fiocamente d’oro della finestra al tramonto, premurosa di ricongiungersi all’Origine (arché), carica d’anni e d’esperienza, sazia di umanità e pertanto tutta divaricata a ricevere l’Abbraccio. Anche se si campasse 100 anni o giù di lì, la minuta alata non si stancherebbe di prendersi la sua rivincita su noi umani, dipartendosi puntuale dalle labbra ormai inturgidite dei nostri defunti, a ricordarci che fugace è il nostro tempo, passa presto e noi, nessuno escluso, ci dileguiamo. Di questo dovremmo, inesorabili, far tesoro di continuo. Specialmente quando ci inalberiamo tronfi e pettoruti, tanto sciocchi da immaginare, e forse pretendere, durevolezza che non ci sarà.
Certe dipartite ricalcano pari pari tal racconto, abitato com’è dalla fragranza del mýthos, perché anche nell’atto più solenne della vita, la morte appunto, parlano con raro garbo, professano con nobilissima modestia il primato di Chi la vita l’ha inventata. La morte, a volte, non aggiunge ma toglie il velo. E noi, i sopravvissuti, vediamo, sorpresi e invidiosi, che quei morti non sono morti ma immortali. Non scompariranno affatto. Hanno sparso senza ritegno polvere d’argento: mai si esauriva dalla loro sacca a tracolla. Come lumache notturne: al mattino brilla gioiosa la loro scia di luce. Ben sapevano che erano solo viandanti e che, presto, sarebbero svaniti. Quanta umiltà! All’indomani noi, i rimasti, scorgiamo i segni di un santo passaggio così nascosto, a latere, intimidito dal suo stesso fruscio. Battito d’ali leggiadre. Nel mentre, non s’era scorta vanità di sorta, o prosopopee ridicole e noiose. Quanta intelligenza! Giammai s’avvertirono trombe fracassose, orrendamente stonate. Quanta saggezza!
E a pensar che noi, instupiditi dalla nostra protervia, incapaci di fare a meno di riflettori che, certo, per il tempo di una comparsa spianano rughe di un viso pur sempre solcato d’inquietudine, li abbiamo quasi derisi, segretamente lo abbiamo fatto, giudicandoci migliori, giudicandoli inetti, inconsistenti, senza spessore, senza la forza che conta, che conterebbe, né volontà di potenza. Ci piace così tanto aver più padroni che padri. Dinanzi a loro, impalpabili, s’ergeva a mo’ di cortina di ferro il nostro delirio d’onnipotenza che tutto rende talmente grigio. Che assurdità! Bipedi implumi, noi, starnazzanti nell’aia appena sotto casa. Pronti a misurarli dai difetti naturali, dagli errori commessi per la caducità stabilita altrove. Come siamo stati corti, volubili e capricciosi, dinanzi alla loro invisibile e reale statura!

Nessun fastidio insorse dalle loro sagome, dimagrite, emaciate, consunte dal fluire dei giorni, sperimetrate dal passaggio del tempo. Anzi, nel loro dispiacersi di mendicare il necessario aiuto, nel loro doversi fermare e protendere le mani, quante volte ci hanno chiesto scusa. Solamente clamore inclamoroso di lor gentilezza. Sensibilità che, d’inchiostro rosso acceso, scrive sulle volute della nostra memoria quanto bene ci hanno voluto, quanto amore ci hanno profuso, quanta compagnia ci hanno dedicato. E, d’improvviso, accorgersi quanto ci erano preziosi.
Lasciano un patrimonio di decoro inestimabile, che rende le nostre da ordinarie stanze alla rinfusa a saloni degli specchi, dove stucchi barocchi riverberano all’infinito giochi di luce di candele odorose d’antico, giù giù, fino alla sontuosità di vestiti setati che ci ritroviamo addosso senza saper come. Quei nostri morti ci hanno abbigliato a festa con la loro presenza diversamente eloquente e noi non lo sapevamo, troppo concentrati a rincorrere altri successi, altri primati, ma non del cuore. Come siamo poveri! Forse siamo miserabili dinanzi a loro, dinanzi al loro ricordo perpetuo! Essi paiono esegesi vivente di quel passaggio biblico che recita, a proposito del Servo del Signore, così: “Ecco il mio servo… non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta…” (Is 42,2-3).
Don Camillo era così. Dalla sua bocca cesellata di fine sorriso è fuoriuscita libera la piccola farfalla della sua anima, restituita a chi gliela aveva imprestata come talento adesso moltiplicato. Egli è arrivato alla fine dell’esistenza qual pianta sfiorita di corolle e frutti dolci, pieno di innumerevoli stagioni. Tanti e per tanto tempo ha nutrito. Beato lui! É beato perché s’è addormentato nel Signore e non nella morte infinita. Lucido come sempre finalmente lo ha veduto, il suo Signore, lo ha riconosciuto, s’è fatto riconoscere, lo ha teneramente chiamato: “Gesù!”. Se n’è andato con lui dopo aver chiesto perdono e perdonato, dopo aver salutato tutti con affetto discreto, carezzato il cuore di ciascuno di cui conosceva quei dettagli che stabiliscono la paternità anche senza aver generato. Difatti un padre egli è stato, un nonno, un amico… un parroco sempre accanto (parà-òikos = nei pressi della casa). Un monumento d’amore, don Camillo, un sensibile dono del Cielo che sensibilmente s’univa ad altri sensibili in una litania di sussulti cordiali, di quelli che assicurano il fluire della vita in questo mondo inceppato dal nostro peccato. Ci mancherà!
Accendi un lume per noi, don Camillo benedetto, e trapunta di stelle il nostro cielo quando si fa cupo. Dicci ancora che val la pena ascoltare Iddio che ci ha creati e ci ha redenti. Ripetici ancora il soave nome della Madre. Cantale l’inno di devozione che ci hai insegnato. In Cielo ci rivedremo, in una comunione perfetta, che sorpasserà limiti, tempi, fronzoli e lacrime, fatta solo di abbracci di gaudio. Sarà un tripudio di farfalle variopinte che danzano leggere, spensierate e inesauribili sulle ali del Vento, il Vento caldo del Paradiso.
San Severino Lucano, 10.12.2021 (giorno del suo 90° compleanno)
don Enzo Appella