Filippo Di Giacomo
A sentire i linguisti, pare proprio che i dialetti siano destinati a scomparire di qui a non molto.
Sotto la spinta del diffondersi dell’istruzione, dei fenomeni migratori, e soprattutto della televisione, essi vanno pian piano morendo, quasi per asfissia.
Si va così dileguando il contatto con il nostro passato, con le nostre radici e, senza accorgercene, ci avviamo verso la perdita della nostra identità culturale. È per questo motivo che scrivo le ”novelle”, che gentilmente vengono pubblicate su questo sito, provando ad esprimere idee e sentimenti col linguaggio più congeniale alle vicende, imitando il modo di parlare dei nostri progenitori.
Quella parlata aveva mille sfumature e grazie ad essa si riusciva a capire molte cose del nostro interlocutore: chi era, da dove veniva, cosa faceva. Oggi non è più così. Il dialetto si è “imbastardito”. Basta ascoltare i nostri figli quando lo parlano: l’inflessione, la costruzione della frase stessa risultano, l’una meno accentuata; l’altra più ridondante di nuovi vocaboli e di espressioni mutuate dall’Italiano, dall’Inglese e da altre lingue. Cosa fare, allora, per salvaguardarlo?
Sono, personalmente e profondamente, convinto che la scuola, da subito, debba favorire il recupero del dialetto e la sua valorizzazione attraverso forme di attività che possano sprigionarne tutta la ricchezza e la freschezza delle espressioni. Esso è una miniera inesauribile di approvvigionamento culturale; è un tesoro di cui, forse per malcelata ritrosia delle famiglie e anche di alcuni insegnanti, ancora non si apprezza del tutto l’enorme potenzialità educativa. Attraverso la ricerca dialettale, le parole acquistano pregnanza e dignità; si caricano di significati reconditi, stabilendo un legame affettivo con il passato. Quante parole dialettali ormai non usiamo più! Eppure capita, a volte, di risentirne qualcuna sulla bocca di persone anziane, magari proprio quella che è legata a un ricordo della nostra infanzia, a una situazione particolare che ci fa ritornare indietro alla ricerca del “tempo perduto”. E subito un calore benefico pervade il nostro cuore, e la mente si apre ai ricordi, sfogliando a ritroso le immagini sbiadite del nostro passato che riacquistano per incanto tutto lo splendore di un tempo. Magia di una parola! E così il filo della storia, della nostra storia e della memoria collettiva continua a svolgersi senza brusche interruzioni dovute al gap generazionale. È questa la vera ragione per cui bisogna coltivare il dialetto che deve diventare il motore, il perno, lo strumento di decodificazione e di analisi della nostra realtà ambientale e sociale, per capire noi stessi, per intenderci e per cercare di sapere chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo. Il dialetto, insomma, deve costituire l’humus esistenziale e l’anima delle nuove generazioni.