Democrazia Cristiana, 50 anni di storia italiana e lucana

Venerdì 22us in un’affollatissima sala al Museo Provinciale di Potenza ci siamo ritrovati per raccontarci e raccontare le proprie esperienze di dirigenti della Dc lucana. Grazie al Centro studi internazionale “Emilio Colombo “è’ stata l’occasione per la presentazione del libro “Storia della Democrazia Cristiana 1943-1993 Il Mulino -Bologna di Guido Formigoni, Paolo Pombeni, Giorgio Vecchio con l’introduzione del prof. Donato Verrastro.

Alcuni protagonisti della storia della Dc nazionale e lucana si sono ritrovati in un dibattito coordinato dal giornalista Giuseppe Di Leo portando la propria testimonianza. Marco Follini ha voluto raccontare con il suo articolo, che ringrazio, questa straordinaria ed unica serata che ha fatto rivivere ai tantissimi presenti momenti importanti e significativi del partito che ha segnato la la storia del nostro paese e della Basilicata. Abbiamo salutato tanti amici (come testimonia l’album fotografico) che con noi sono stati protagonisti ed orgogliosi di una storia di un grande partito che ha messo insieme tante generazioni di persone in ogni angolo della Basilicata.

Peppino Molinari.

La scusa, se vogliamo chiamarla così, era la presentazione di un ponderoso libro sulla storia comune democristiana. Un tuffo nel passato, apparentemente. Ma la serata organizzata per l’occasione da Peppino Molinari, custode e coltivatore della memoria della Dc, si è rivelata come un’occasione per ragionare sul presente e sul futuro della politica italiana. A conferma che nulla di nuovo si costruisce se non si è capaci di scavare in profondità nella tradizione che abbiamo alle spalle.

Poiché appunto la Dc non è la storia. E’ il paese. Ancora oggi, perfino oggi. E’ un modo di intendere la politica che rimanda a un’identità italiana che è sopravvissuta a tutte le peripezie a cui gli ultimi anni ci hanno abituato. E che, per l’appunto, non lascia quasi nessuno appagato e soddisfatto del punto assai critico a cui siamo finora approdati.

Le testimonianze di chi ha vissuto quegli anni -gli ultimi, soprattutto- non danno tanto conto di una nostalgia o di un rimpianto. Testimoniano semmai lo smarrimento in cui noi italiani, democristiani e no, ci siamo venuti a trovare nel momento in cui quella bandiera è stata ammainata e da quel vuoto non è sorto nulla di così significativo da poterlo riempire e magari far dimenticare.

Il fatto è che la Dc ha rappresentato innanzitutto un’idea del paese. E cioè quella di un paese unito, intessuto in una trama comune, capace di valorizzare le sue differenze senza esasperarle, di risolvere i suoi conflitti senza cancellarli, di ridurre le sue distanze senza pretendere di annullarne il valore e la suggestione. Un paese pluralista eppure unito. A suo modo ordinato, eppure pienamente libero. Un paese articolato senza mai mettere in questione la sua fondamentale ricchezza di ispirazioni e anche di contrasti.

La Dc è stata prima di tutto un fattore di coesione della nostra comunità. E lo è stata appunto perché si è posta fin dall’inizio come un partito che traeva la sua forza e le sue ragioni dal territorio. Un partito di luoghi. Laddove vigeva il principio cardine della rappresentanza. Amministratori, dirigenti, parlamentari, tutti affondavano le loro radici nel vivo delle comunità. Tutti si sforzavano di rappresentare il loro elettorato vivendovi in simbiosi. Tutti si incaricavano di dare seguito a una certa idea dell’Italia. E cioè quella di un paese di paesi, qualche volta di paesini minuscoli. Ognuno dei quali meritava di essere e di sentirsi parte a pieno titolo di una comunità nazionale.

Discendeva di qui un altro principio fondamentale della cultura politica democristiana. E cioè quello dell’ascolto del prossimo. Dunque, non una cultura che calasse dall’alto verso il basso, ma una costruzione comune che veniva edificata con il concorso più largo possibile delle opinioni, dei valori, delle esperienze di una comunità che abbracciava una parte così larga dello spettro elettorale. Un esercizio di modestia della politica, se vogliamo. E di rispetto delle persone a cui ci si rivolgeva, soprattutto. Sapendo che ogni persona è, in sé, un universo.

Ora, il punto di oggi è qui. Ancora qui. E cioè riguarda il fatto che questa capacità di ascolto e di elaborazione è progressivamente venuta meno nel mentre che altre culture e altre tradizioni si facevano largo. Se i nostri successori, chiamiamoli così, avessero adottato quel metodo fatto di ascolto, di pazienza, di buonsenso che per anni e anni (anche attraverso i nostri errori, ci mancherebbe) ha connotato la presenza democristiana sulla scena pubblica si sarebbe potuto fare a meno del nostro retaggio. Ma dal momento in cui altre forze e altre idee si sono imposte è venuto meno proprio lo sforzo di capirsi e di parlarsi colmando quelle distanze in mezzo alle quali la politica rischia di smarrirsi. E’ questo a rendere prezioso, ancora oggi, il nostro retaggio.

Per questo è importante, tanto più adesso, non perderci di vista tra di noi. Non perché possiamo godere di una nuova stagione di gloria e di potere. Ma perché avvertiamo che l’Italia ha ancora bisogno di attingere a un patrimonio politico che si nutre del rispetto che gli uni devono agli altri. Ne va del futuro di questo paese. Che vale più ancora del nostro passato orgogliosamente democristiano.

Marco Follini

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